Sabato 20 Aprile 2024

Investire sui mercati emergenti «Può dare rendimenti più alti ma serve maggiore competenza»

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Achille Perego

MILANO

QUANDO si fa trading la parola d’ordine è essere formati e informati perché il rischio di perdere – lo confermano le statistiche su chi compra e vende prodotti finanziari sulle piattaforme online – è molto alto. Soprattutto se ci si avventura su mercati complicati, anche per l’effetto cambio, come quelli emergenti. «Non c’è dubbio che fare trading su valute, bond e azioni dei Paesi emergenti – spiega Mauro Vicini, responsabile operativo di Websim.it – richieda una dose ancora maggiore di competenza e prudenza rispetto all’investimento in quelli sviluppati».

Ma quanto e come i mercati emergenti possono dare soddisfazioni ai trader?

«Dopo un 2018 difficile quest’anno si sta assistendo a un deciso recupero degli emergenti. Dall’inizio dell’anno l’indice MSCI Emerging markets in dollari, che comprende 24 Paesi emergenti con un peso maggiore per Cina, Corea del Sud, Taiwan, India e Brasile, è cresciuto di quasi il 13%. Sicuramente una performance di rilievo anche se inferiore di oltre quattro punti a quella realizzata nello stesso periodo dall’MSCI World Index, il paniere dei Paesi sviluppati dove Wall Street rappresenta oltre il 50%».

Da che cosa sono favoriti gli investimenti nei mercati emergenti?

«Dalla prospettiva di rendimenti più alti. Se guardiamo a tassi e bond, oggi il rendimento di un titolo decennale tedesco è pari a zero così come quello giapponese. Per l’Italia e gli Usa siamo attorno al 2,60-2,70% lordo annuo. Nei Paesi emergenti si può arrivare anche al 5-6%. La ritrovata forza del dollaro, risalito a 1,12 sull’euro, negli ultimi tre-quattro mesi avrebbe dovuto indebolire, come sempre avviene, i mercati emergenti. Ma il cambio di strategie della Fed, la banca centrale americana, che ha sospeso il rialzo dei tassi e adesso addirittura si ipotizza che possa tornare a ridurli, ha spinto gli investitori a diversificare gli investimenti verso i rendimenti più attraenti degli emergenti».

Dove, però, esiste sempre il rischio cambio?

«Non c’è dubbio e per questo se un trader vuole ridurre la componente di rischio è bene che opti per investimenti denominati in dollari: rendono un po’ meno ma danno una maggiore protezione dal rischio cambio avendo anche un rating maggiore sui mercati. Detto questo, da inizio anno abbiamo assistito a un forte recupero (oltre il 40%) del rublo, per il rialzo delle quotazioni del petrolio che hanno favorito la Russia grande esportatrice di materie prime energetiche. Ma abbiamo assistito anche a un recupero del peso messicano, del rand sudafricano, della rupia indiana e del real brasiliano mentre continua a soffrire la lira turca anche per le pressioni di Erdogan sulla banca centrale perché tagli il costo del denaro».

E il renminbi cinese?

«La valuta cinese è un caso a parte. Di fatto è uno strumento di «minaccia» in mano a Pechino verso gli Stati Uniti e utilizzato nella guerra dei dazi. Se quest’ultima si inasprisce, la Cina usa l’arma della svalutazione, e viceversa».

In questo scenario come dovrebbe muoversi un trader sui mercati emergenti?

«Evitare l’investimento diretto su singoli valute e titoli, dai bond alle azioni e preferire strumenti specializzati come gli Etf (con prodotti anche a leva) che diversificano l’investimento sottostante tra decine di prodotti e di Paesi emergenti e per i quali, anche tenendo conto dei costi e della maggiore volatilità, andrebbe adottata una strategia non a brevissimo ma di media durata. Qualche mese al posto di qualche giorno».

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