Mercoledì 24 Aprile 2024

L’ultimo dilemma: eliminare o meno le commissioni

ADOTTARE IL MODELLO inglese o restare con quello italiano? È il dilemma attorno al quale si incentra oggi il dibattito tra gli addetti ai lavori del risparmio gestito, dopo l’approvazione di una risoluzione della Commissione Europea che sta facendo molto discutere. Nelle scorse settimane, è stata infatti presentato a Bruxelles un disegno di riforma del settore dei servizi finanziari, che ha l’obiettivo di eliminare nel Vecchio Continente le commissioni di retrocessione (rebeats), cioè i balzelli che le società di gestione dei fondi d’investimento pagano a chi distribuisce i loro prodotti, dalle banche alle reti di consulenti finanziari e private banker. Ogni volta che una banca o una rete di consulenti vende a un cliente le quote di un fondo di una società di asset management, infatti, lo fa sulla base di un accordo commerciale stipulato a monte dai suoi dirigenti. Il risparmiatore che acquista i fondi neppure se ne accorge, poiché questi balzelli non vengono pagate direttamente sulla clientela ma sono inclusi nelle commissioni che gravano sul patrimonio dei fondi. Sul 100 euro investiti, insomma, la società che gestiscono e distribuiscono il fondo trattengono ogni anno per sé 1 o 2 euro, sotto forma di commissioni di vario genere (di gestione, di ingresso, di uscita e via dicendo).

Tutte queste voci di costo sono dunque impercettibili ma vanno a incidere poi sul rendimento netto incassato effettivamente dal risparmiatore quando si fa liquidare il capitale. È un sistema che, in teoria, può dar luogo a conflitti di interesse perché, sulla base degli accordi commerciali stipulati, una banca o una rete di consulenti potrebbe essere spinta a collocare il fondo che è più redditizio per lei, in termini di commissioni, piuttosto che quello fa guadagnare di più al cliente. Proprio per eliminare questo conflitto di interesse, la Commissione Ue vorrebbe vietare le commissioni di retrocessione, adottando un sistema già presente in Gran Bretagna. In pratica, i clienti-investitori pagherebbero soltanto una parcella al loro consulente finanziario, per le attività di consulenza ricevuta, come si fa quando si va da un commercialista o da un avvocato, senza che vi siano rapporti economici tra chi costruisce i portafogli per i clienti e chi invece fabbrica i prodotti finanziari, cioè le case di gestioni di fondi. Non sono poche, però, le perplessità sollevate dagli addetti ai lavori. Con questo sistema (che in gergo tecnico si chiama fee only), c’è infatti il rischio concreto che molti risparmiatori non siano disposti a pagare le parcelle ai loro consulenti e che questi ultimi si concentrino solo sui clienti più ricchi ed evoluti, che fruttano di più in termini di commissioni.

Andrea Telara