Inflazione, l'Italia è tornata indietro di 35 anni. Le cause e i rimedi

Balzo dei prezzi in settembre. I dilemmi della Banca centrale europea per un intervento mirato

Il balzo dell'inflazione in Italia

Il balzo dell'inflazione in Italia

Un balzo di altri 3 decimi di punto, fino all’8,9% su base annua. È il livello toccato a settembre in Italia dall’inflazione, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di oltre 35 anni. Era infatti dal 1986, quando al governo c’era Bettino Craxi, che l’aumento dei prezzi al consumo non si trovava nel nostro Paese a vette così alte. In Europa le cose vanno ancora peggio visto che, secondo i dati preliminari di Eurostat, l’inflazione di settembre è addirittura sopra al 10% a livello continentale, contro il 9,1% di agosto. Ma a cosa è dovuta questa fiammata dei prezzi e come può essere fermata?

Le cause dell'inflazione

Per capire come si è arrivati alla spirale inflazionistica odierna bisogna compiere innanzitutto qualche passo a ritroso. Tra il 2020 e il 2021, terminato il blocco dell’economia dovuta alla pandemia del Covid-19, il consumo di beni e servizi sul mercato ha ripreso a correre, ma l’offerta è riuscita a tenere a stento il passo della domanda, per via di una serie di strozzature e paralisi produttive determinatesi durante l’emergenza sanitaria. E così, come sempre avviene in situazioni di questo tipo, i prezzi al consumo hanno ripreso a salire, sia in Europa, che negli Stati Uniti. Come se non bastasse, a peggiorare le cose nel 2021 è arrivata la guerra in Ucraina, che ha fatto impennare i prezzi delle materie prime, visto che Mosca è un grande fornitore di gas al Vecchio Continente mentre Kiev esporta in abbondanza le commodity agricole. Avere materie prime più care significa ovviamente costi di produzione più alti per le aziende, che sono inevitabilmente costrette ad aumentare i prezzi.

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I rimedi

Per frenare questa fiammata dell’inflazione, l’arma più efficace è tradizionalmente la politica monetaria delle maggiori banche centrali, la Bce in Europa e la Federal Reserve negli Stati Uniti. Aumentando i tassi d’interesse e rendendo più costoso il denaro, le banche centrali possono far diminuire la moneta in circolazione, comprimendo i consumi e gli investimenti. In questo caso diminuisce la domanda e la crescita economica rallenta. Questa frenata non è di per sé un fatto positivo, ma è considerata il prezzo necessario da pagare per evitare che l’inflazione si trasformi in un treno in corsa inarrestabile, capace di travolgere il potere di acquisto delle famiglie e dei salari. Purtroppo, però la fiammata inflazionistica di oggi presenta molte sfaccettature.

Differenze tra Stati Uniti ed Europa

"Innanzitutto va fatta una distinzione tra la situazione che viviamo in Europa e quella che c’è negli Stati Uniti”, dice Giorgio Di Giorgio, professore di teoria e politica monetaria e prorettore all’Università Luiss. "Al di là dell’Oceano c’è un’inflazione determinata principalmente da una sostenuta domanda di beni e servizi mentre in Europa l’aumento dei prezzi è legato per lo più a una strozzatura dell’offerta", spiega. In altre parole, mentre il Vecchio Continente fa fatica ad approvvigionarsi di materie prime per colpa della guerra e vede il prezzo del gas andare alle stelle, al di là dell’Atlantico c’è invece una situazione ben diversa. Gli Usa non dipendono dalle forniture di Mosca e hanno una disoccupazione ai minimi storici, che spinge in alto i salari e i consumi. "È la conseguenza delle politiche fiscali espansive attuate negli anni scorsi dall’amministrazione di Washington - spiega Marcello Messori, professore di economia e direttore della scuola di politica economica -, cioè dei tagli alle tasse di Trump prima e poi degli aumenti di spesa decisi dall’amministrazione Biden". Basti pensare, sottolinea Messori, che i sostegni all’economia approvati da Biden valgono quattro volte quelli messi in campo dall’Unione Europea.

I dilemmi della Banca centrale europea

Viste le differenze che oggi separano le due sponde dell’Atlantico, appare evidente come oggi la Federal Reserve (Fed) americana abbia vita più facile rispetto alla Banca Centrale Europea. Il governatore della Fed Jerome Powell si è detto disposto a sacrificare un bel po’ di crescita economica per fermare l’inflazione aumentando il costo del denaro. Non a caso, i tassi d’interesse ufficiali negli Stati Uniti sono già stati ritoccati più volte al rialzo, fino a raggiungere il 3-3,25%. Nel Vecchio Continente, invece, la presidente della Bce, Christine Lagarde è stata molto più prudente. Ha alzato sì i tassi, ma lo ha fatto a un ritmo più lento, portandoli per adesso all’1,25-1,5%. "La Bce si trova senza dubbio in una situazione più complicata - aggiunge Di Giorgio - poiché un innalzamento del costo del denaro troppo repentino rischierebbe di deprimere un’economia che già si trova in una situazione più complicata per via della crisi energetica".

Dunque, secondo l’economista della Luiss, per evitare una recessione nel Vecchio Continente i prossimi rialzi dovranno essere contenuti nell’ordine dello 0,25-0,5%, benché ci sia comunque bisogno di una politica monetaria restrittiva. Il guaio è che, secondo Messori, la politica monetaria da sola non basta e non basterà a risolvere le cose. Proprio per la situazione complicata in cui si trova la Bce, per Messori occorre nel Vecchio Continente quello che in gergo tecnico viene definito un 'policy mix', cioè una stretta collaborazione tra la politica monetaria della banca centrale e la politica fiscale attuata dai governi. Anzi, occorre una politica fiscale attuata a livello centrale direttamente dall’Unione Europea, in linea con lo spirito adottato per il Recovery Plan, approvato per sostenere l’economia dopo il Covid-19. Più nello specifico, aggiunge Messori, "se oggi c’è una strozzatura dell’offerta occorre innalzare il livello dell’offerta”. Il che significa, nel concreto, che l’Ue può produrre beni pubblici attraverso per esempio un nuovo piano di difesa comune oppure attuare una politica di approvvigionamento energetico comune, con stoccaggi condivisi. Ancora una volta, insomma, la ciambella di salvataggio è un’Europa più coesa e non più divisa.