IL ‘PATTO PER LA RINASCITA’ invocato da Mario Draghi ha lo scopo di creare le condizioni che servono a dispiegare le risorse imprenditoriali e del lavoro necessarie a centrare sia l’obiettivo congiunturale della ripresa che quello strutturale del rilancio. In pratica, a costruire una cornice di buone relazioni industriali, a supporto del Pnrr. Concretamente, un lavoro a cui sono chiamate imprese e sindacati per recuperare la produttività perduta, nostro vero handicap da decenni. Lo stesso presidente del Consiglio ha sottolineato che se nel 2019 il nostro reddito pro capite era fermo a quello di vent’anni prima non può essere un caso che nello stesso ventennio la produttività totale dei fattori sia diminuita di più del 4%, mentre in Germania è aumentata di oltre il 10% e in Francia di quasi il 7%. Già nel 2018 l’Ocse aveva definito l’Italia "maglia nera dei Paesi industrializzati per i livelli di produttività", ma ancora nel 2019 sulla componente lavoro noi abbiamo perso lo 0,4% mentre in media l’Unione europea ha guadagnato lo 0.9%, dopo che nel 2018 la forbice era stata dell’1,4% a nostro danno. Adesso, nonostante il rimbalzo dell’economia, il problema si ripropone. Nel secondo trimestre del 2021 il Pil è aumentato del 2,7% sui tre mesi precedenti, mentre le ore lavorate del 3,9%: ora, se la quantità di lavoro cresce più del reddito significa che cala la produttività. Ed è un problema che potrebbe diventare ancora più grave se l’aumento dell’inflazione dovesse rivelarsi strutturale. Anche perché il nostro gap è congenito. Nel quinquennio 2014-2019 la produttività oraria del lavoro in Italia è cresciuta in media dello 0,2% all’anno, invece dell’1% per i tedeschi e dell’1,3% per l’Unione europea. Vuol dire che ogni 12 mesi la forbice si allarga. Accade dal 1995, visto che da allora la nostra media è pari ad un +0,2% annuo (mentre quella del capitale segna addirittura -0,7%), contro l’1,6% dell’Ue, l’1,2% dell’eurozona, l’1,5% della Gran Bretagna, l’1,3% di Germania e Francia. Sia chiaro, non si tratta di lavorare di più, ma il suo contrario: lavorare meglio, perché devono diminuire le ore lavorate e aumentare i risultati prodotti. Poiché la produttività misura proprio il rapporto tra il volume di output e i fattori che sono stati impiegati per raggiungerlo, con il progresso tecnologico, con una migliore organizzazione del lavoro, con skills e know how più elevati, in futuro questo indice è destinato a crescere esponenzialmente. Altrimenti si resta fanalino di coda.
Nel Pnrr sono previste riforme e investimenti per colmare questo divario, ma ovviamente serve la collaborazione di aziende e lavoratori. Allora, da un lato, le imprese devono scommettere e investire sulla formazione, puntare sulla competitività e sull’innovazione. Dall’altro, i lavoratori (e i sindacati) devono essere disponibili a costruire percorsi di lifelong learning, aggiornamento a nuove competenze, cambi di mansione. Insomma, a rimettersi in discussione, anche per quanto riguarda il sistema di licenziamento e riqualificazione, che è tra i meno efficienti del Continente. Non è difficile, basta copiare i sistemi che funzionano. In Germania, per esempio, 300mila lavoratori del metallurgico, del tessile, del chimico e dell’automotive hanno ottenuto un aumento salariale del 4,3% e la possibilità di passare da 35 a 28 ore settimanali, ma questo solo dopo aver realizzato grandi aumenti di produttività, basati sull’innovazione prodotta dal know-how tecnologico. Oppure l’Islanda, dove a seguito di un esperimento al termine del quale si è osservato un aumento di produttività, nei rinnovi contrattuali del 2019 e del 2021 l’86% dei lavoratori ha ottenuto di poter passare da 40 a 35 ore settimanali. Come ha ricordato in passato l’Isril, il salario di produttività ha dato risultati importanti sul piano della crescita e del benessere sociale in quei Paesi (specie nordici) in cui sono state adottate politiche concertate di competitività a livello macro-economico. Si parva licet, in Italia hanno funzionato la detassazione dei premi di produttività e la contrattazione decentrata. Visto che quel patto può servire concretamente soprattutto a recuperare, sarebbe davvero il caso di firmarlo. Con il sangue.
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