SALARIO MINIMO? LA REALTÀ DICE CHE È MEGLIO SPINGERE SUI CONTRATTI

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PERFINO IL PAPA è arrivato a chiedere un ‘reddito universale’, ma se nel mondo delle buone intenzioni questo principio è assolutamente giusto, nella realtà concreta della nostra economia l’introduzione del salario minimo potrebbe generare più danni che vantaggi. A intervalli regolari, il tema viene riproposto dalle forze politiche, ma sempre in modo superficiale, come anche ultimamente hanno fatto Pd e 5stelle. Perché è vero che c’è una direttiva europea in gestazione, ma questa ha l’obiettivo di spingere la contrattazione collettiva negli Stati che ne sono sprovvisti e non istituire un ‘salario minimo europeo’, come si vorrebbe far credere. Lo ha spiegato anche la sottosegretaria al ministero del Lavoro, Tiziana Nisini: se in Italia si dovesse introdurre il salario minimo, "questo andrebbe legato ad una legge sulla rappresentanza", ha detto durante un question time alla Camera. D’altra parte, le retribuzioni non sono entità astratte, ma hanno correlazioni dirette con la natura del tessuto economico. Prima di tutto con la struttura del mercato del lavoro, che è diversa per ogni territorio, per cui un operaio in Basilicata non ha lo stesso stipendio di uno di Bergamo o di Berlino, pur facendo lo stesso mestiere.

Fondamentale, poi, è il legame con la produttività, in Italia ferma al palo da almeno vent’anni. Infine, c’è il peso del cuneo fiscale, che nel nostro Paese incide molto e che giustamente il governo vuole tagliare con la prossima legge di Bilancio. Tanto è vero che dare un euro in più in tasca al lavoratore significa una spesa di almeno due euro per l’azienda. Pensare di voler cambiare la realtà e imporre una soglia minima ai salari, dall’alto e in maniera semplicistica, equivale a una forzatura controproducente. Come sottolineato sia da Confindustria che dai sindacati, i minimi salariali sono già all’interno dei contratti collettivi di lavoro. Principi che inoltre vengono applicati dai giudici come benchmark in tutte le cause di lavoro dove non vige un contratto. Comunque, si tratta di minimi che, come per i metalmeccanici, raggiungono orientativamente i 10 euro l’ora. Una cifra che può e dovrebbe aumentare, ma bisogna fare attenzione: nei Paesi dove è stato inserito il salario minimo la tendenza delle imprese è quella di uscire dalla contrattazione. E questo non è nell’interesse dei lavoratori, sia perché cederebbero la titolarità a decidere sulle condizioni del proprio lavoro allo Stato, sia perché quest’ultimo è sempre e comunque più lento a recepire i cambiamenti. In fondo dentro al mondo delle relazioni industriali, nelle fabbriche e nelle aziende, ci sono le parti sociali, non i ministeri.

Invece, nei settori dove le paghe sono davvero troppo basse la strada è colpire i contratti pirata che vengono fatti da chi non ha rappresentanza e, contestualmente, incentivare proprio la contrattazione collettiva dove essa non è presente. In passato ci sono stati casi in cui l’introduzione del salario minimo ha aumentato l’occupazione, visto che con retribuzioni più alte c’è un maggiore interesse a trovarsi un lavoro. Tuttavia, poiché l’idea che circola è fissare il minimo intorno al 50% della linea mediana delle retribuzioni, e visto che la frequenza maggiore delle paghe è intorno ai dieci euro lordi l’ora, il salario minimo si attesterebbe intorno ai 5 euro. Non proprio una soluzione soddisfacente. Senza contare che in alcune zone d’Italia, come in Meridione, il reddito di cittadinanza (che arriva fino a 780 euro) è comunque prossimo alla retribuzione minima stabilita per legge (5 euro l’ora su 160 ore mensili, vuol dire circa 800 euro, ma lordi): è evidente che il beneficio di andare a lavorare invece che stare sul divano sarebbe marginale, se non inesistente.

Insomma, si sta affrontando il problema dal lato sbagliato e ignorando i due problemi principali, cioè cuneo fiscale e produttività. In particolar modo, su questo secondo punto dobbiamo ricordare che l’aumento del costo del lavoro non è, e non potrà mai essere, un elemento in grado di spingere innovazione, automazione e digitalizzazione. L’aumento delle retribuzioni, semmai, ne è la conseguenza. E la crescita futura non si basa più sulla quantità di lavoro, bensì sulla sua qualità. Insomma, meglio tornare alla realtà.

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