Lunedì 15 Aprile 2024

Quel piccolo grande impero della Kerakoll fondato sulla colla

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"QUANDO SONO PARTITO con la fabbrica avevo due dipendenti due. Uno era mio suocero. L’altro era l’ex mugnaio della frazione di Sassuolo dove sono nato e cresciuto, San Michele dei Mucchietti…". Oggi Romano Sghedoni (nella foto a destra), classe 1938, con la sua Kerakoll dà lavoro a oltre duemila persone. In poco più di mezzo secolo ha costruito un piccolo grande impero. L’azienda produce materiali per l’edilizia, fattura più di mezzo miliardo di euro all’anno, è all’avanguardia sul fronte della eco compatibilità e ha diciassette stabilimenti sparsi in dodici nazioni, dalla Spagna all’India, dalla Polonia al Brasile. "Ma in fondo io sono rimasto l’uomo che ero", sospira Sghedoni. "Ho i miei valori, non li ho mai rinnegati".

Eppure di solito il successo cambia tante cose.

"Il benessere è importante, ci mancherebbe. Tra l’altro io penso che per redistribuire la ricchezza prima la ricchezza vada creata. Però non ho lasciato che l’avidità si impossessasse del mio modo di intendere l’esistenza".

Crede nel valore sociale dell’impresa, come dicono quelli bravi?

"Assolutamente sì. Un industriale non risponde soltanto dei suoi conti, dei bilanci. Ha una responsabilità nei confronti di chi è al suo servizio, di chi lavora per lui e con lui".

Come nasce l’avventura Kerakoll?

"Ah, eravamo nel mitico Sessantotto. Mitico per ragioni che poco avevano a che fare con la contestazione giovanile. Parlo dello spirito dell’epoca. Avevo già moglie, venivo da una famiglia contadina, campavo andando in giro a vendere vernici. Si figuri che un cliente di Ravarino che faceva borsette per signora a un certo punto, non potendo pagarmi in denaro la fornitura di vernice, mi riempì appunto di borsette. Che smerciai improvvisandomi piazzista! Insomma, non stavo male, ma c’era qualcosa nell’aria…".

Che cosa?

"Lo spirito a cui accennavo prima. Amico mio, quello è stato il periodo più bello nella storia d’Italia. Con una punta di malinconia, confesso di temere che una storia come la mia, simile a quella di tanti connazionali, nel contesto odierno non sarebbe ripetibile. E spero sia l’età avanzata a rendermi pessimista".

C’era una volta il Boom.

"Già, il miracolo italiano degli anni Sessanta! Si respirava una voglia di fare che contagiava tutti. Il concetto di invidia sociale era sconosciuto. Se avevi una idea, ci potevi provare".

E spesso funzionava.

"Senta qua. Io avevo un amico che faceva il rappresentante per una ceramica. Ci incontriamo la domenica mattina al bar e lui mi fa: Romano, c’è un tizio a Bologna che ha dei barattoli di una strana colla, buona per attaccare le piastrelle alle pareti. Solo che nessuno è interessato al prodotto…".

Dopo di che?

"Ho sentito suonare un campanello nella testa. Sono andato da questo signore bolognese, si chiamava Labanti. Comprai quei curiosi barattoli che nessuno voleva e mi precipitai nel garage di casa mia, a Sassuolo".

A fare cosa?

"Il test! Avevo tre o quattro mattonelle, le appiccico al muro con la colla bolognese e trattengo il fiato".

A lungo?

"Eh, fino ad allora le ceramiche si attaccavano usando sabbia e cemento. Io sono stato in apnea fin quando non ho avuto la certezza che le mie non si sarebbero staccate. A quel punto ho capito cosa avrei fatto nella vita, da lì in poi".

E così è nata Kerakoll, con i famosi due dipendenti, suocero compreso.

"In verità l’azienda l’avevo chiamata Edilkoll, colle per l’edilizia, perfetto. Solo che mi ha fregato Google".

Prego?

"Mica esisteva Internet! Dunque io ignoravo che una azienda di nome Edilkoll esisteva già. Me ne accorsi recandomi ad una fiera. Dovetti buttare via la carta intestata, le buste con il marchio, tutto".

Un autogol, in gergo calcistico.

"Lì mi ha salvato la fantasia di un altro amico, un commercialista. Lui aveva studiato greco al liceo. Mi disse: Romano, in greco ceramica si scrive Kera, battezzati Kerakoll e vai".

E lei è andato.

"Piano piano, ma crescendo sempre. Investimenti costanti, attenzione all’ambiente, l’espansione all’estero, mai il passo più lungo della gamba. Debbo tanto ai miei collaboratori, ai miei dipendenti. Ed è stato fondamentale il supporto, non solo a livello emotivo, di mia moglie Luciana e dei miei figli. Quando penso al futuro remoto, ho una convinzione che viene dalla esperienza: fra cento anni l’azienda che ho creato ci sarà ancora e sarà ancora in mano alla famiglia Sghedoni".