Non solo materie prime, filiere sull’orlo del collasso

Il Covid prima e la guerra oggi, frenano gli scambi globali e gli approvvigionamenti. L’effetto sono i rincari, ma ci sono anche fabbriche che rischiano di fermare la produzione

Micro chip

Micro chip

Prima il Covid, poi le strozzature nelle catene di fornitura globali, adesso la guerra in Ucraina. Non è la fine della globalizzazione né l’inizio di un’era autarchica – speriamo – ma certo il commercio internazionale sta prendendo una forma nuova, rivoluzionando, di conseguenza, la struttura del sistema industriale. Con effetti dirompenti a lungo termine per i quali bisogna attrezzarsi. Gli scambi commerciali mondiali sono passati dai 2.000 miliardi di dollari annui del 1980 ai 19.500 del 2018. Un processo esponenziale che, oltre ai prodotti finali, coinvolge anche quelli intermedi. Le auto tedesche montano freni italiani. Gli Iphone sono assemblati in Cina. E si potrebbe andare avanti all’infinito.

Le filiere produttive sono sempre più interconnesse e spesso le aziende hanno optato per un modello just in time, svuotando i magazzini e affidandosi a flussi di merci sempre più intensi. Adesso quel sistema è andato in crisi. L’indice Prometeia che calcola il costo delle materie prime per le imprese manifatturiere italiane registra +71% nel 2021 (si va dal +86% per le commodity acquistate dalle industrie chimiche fino al +46% per quelle del tessile), a cui aggiungere un rialzo del 27% nel solo 2022. In generale, tra Covid e guerra, un raddoppio secco.

Ora, dalla Russia arrivavano grandi quantità di merci: petrolio e gas, ma anche in ambito agroalimentare (il 25% del grano mondiale e il 20% dei fertilizzanti), oltre che diverse forniture per la nostra industria. Così, se il settore dei trasporti e quello della pesca sono in crisi, alcune fabbriche rischiano di fermarsi completamente. Per esempio, quella dell’automobile. Mosca è il quinto produttore al mondo di acciaio, detiene il 25% della produzione totale del palladio, fondamentale per le marmitte catalitiche, oltre che il 14% di quella del nichel, necessario per le batterie elettriche. Il cui costo, anche per scarsità di litio e cobalto, è schizzato alle stelle, facendo così entrare in crisi lo sviluppo stesso dei veicoli elettrici. In ogni caso, mancando materie prime e semiconduttori, le automobili sono sempre più difficili da produrre e la scarsità ne fa aumentare i prezzi: fino a +10% per quelle nuove, fino a +20% per l’usato.

Proprio sui semiconduttori si sta correndo ai ripari, visto che ormai i microchip, il cui uso è andato progressivamente crescendo, vengono in prevalenza importati dalla Cina mentre la produzione europea sul totale mondiale è calata dal 44% del 1990 al 10% odierno. L’Ue, spinta anche dal governo italiano, ha predisposto un piano di investimenti pubblici e sostegno di quelli privati (il Chips Act). Bene, perché serve un approccio strategico e di lungo periodo. Le soluzioni di emergenza non sono sufficienti. Con il grano tenero a +33% e il mais a +34% nell’ultimo mese si è previsto, per esempio, che si potrà tornare a coltivare per un anno quel 5% di terreni che ad oggi deve essere per legge lasciato a riposo. Tuttavia, negli ultimi 25 anni abbiamo perso il 28% di superficie agricola.

Ma ci sono altri spazi di intervento. Per esempio, la filiera della ceramica chiede di estrarre più argilla dalle miniere sarde perché dall’Ucraina non arriva più nulla. Oppure, si può produrre più ghisa a Taranto perché la guerra ha chiuso i rubinetti del Mar Nero. Insomma, si deve e si può ripensare la struttura delle filiere produttive. Una necessità da cui tirare fuori una strategia. Ovviamente questa ristrutturazione presenta degli svantaggi, come un aumento dei costi di produzione, ma forse la sicurezza che ne deriva è un prezzo che vale la pena pagare. Tra Covid e guerra, il mondo è cambiato. Adeguiamoci.

twitter @ecisnetto