Inflazione e fine degli aiuti: la Bce alla prova tempismo

Un’uscita troppo accelerata dagli stimoli può fare danni, specie ai Paesi con alto debito

Christine Lagarde guida la Bce

Christine Lagarde guida la Bce

Il tempismo è tutto, in economia. E in particolar modo per le banche centrali. La Bce, per esempio, oscilla tra freno e acceleratore, con il rischio così di andarsi a schiantare. Da un lato la guerra in Ucraina e la fase ancora transitoria di uscita dalla pandemia indurrebbero a mantenere la politica monetaria di tipo espansivo, dall’altra le fiammate inflazionistiche consiglierebbero invece di alzare progressivamente i tassi e ridurre velocemente gli stimoli che in questi anni hanno aiutato famiglie, imprese, ma anche gli Stati con elevato debito pubblico (Italia in testa) a rimanere a galla. Ma c’è il rischio che, se troppo rapida, questa cura sia peggiore del male. Come è già successo nel 2011.

Nell’incontro informale del Consiglio Direttivo della Bce che si è tenuto a Parigi giovedì, si è parlato molto di Ucraina, ma si è anche accennato alla tempistica con cui smantellare quel sistema di aiuti monetari con cui la Bce, da Draghi in poi, ha salvato l’economia continentale. Per adesso, con gli eserciti in campo, tutto è stato congelato. Ma la discussione è aperta, ed è evidente che quando Francoforte smetterà di acquistare il debito italiano ai livelli attuali (un terzo è nelle sue mani), probabilmente assisteremo ad una maggiore volatilità dello spread (che è già a 170 punti) e ad una minore sostenibilità del nostro debito pubblico.

Per cui bisogna essere cauti. Ora, è vero che l’inflazione ha raggiunto livelli come non si vedevano da decenni, ma forse un’accelerazione eccessiva nelle contromisure può provocare sbandamenti. In Italia i prezzi sono cresciuti del 4,8% a gennaio (record dal 1996, tempi della lira), con la variazione acquisita per il 2022 già a +3,4%. Un pericoloso rialzo che, come in tutta Europa (dove il livello è intorno al 5%) è però trainato da rincari energetici e scarsità delle materie prime. Per cui si potrebbe trattare di un effetto temporaneo, come sostenuto dalla Bce. Ma proprio a Francoforte hanno prima sbagliato le previsioni (tre mesi fa aveva stimato +2,2% per quest’anno, mentre ora ha corretto a +3,5%, ergo l’errore era del 60%) e poi ammesso che non ci saranno cali prima di qualche mese. Così ora lo spettro dell’inflazione si aggira per l’Europa, specie tra i risparmiatori tedeschi. Per questo sia il governo che la banca centrale di Berlino chiedono una rapida stretta. Vedremo.

Certamente, è sbagliato prendere a riferimento gli Stati Uniti dove è già stato annunciato un primo aumento dei tassi per metà marzo, e forse altri due prima della fine del 2022. Dall’altro lato dell’Atlantico non c’è solo un’inflazione al 7,5%, ma già si vedono effetti di aumenti salariali che in Europa non ci sono ancora. Soprattutto, alcuni Paesi europei hanno un problema di sostenibilità del debito, che con un po’ di inflazione può essere meglio gestito. Crisi energetica, Ucraina, nuove varianti del virus che non possiamo escludere, rendono ogni previsione instabile. Per cui la fretta rischia di essere cattiva consigliera. Come hanno ricordato Lorenzo Bini Smaghi e Domenico Siniscalco nella mia War Room, nel 2011 la Bce procedette ad un prematuro rialzo dei tassi che danneggiò tutta l’economia continentale ancora ferita dallo choc del 2008, impedendone per molti anni la guarigione. Purtroppo, se fino a poche settimane fa Lagarde aveva escluso un rialzo dei tassi nel 2022, ha poi ritrattato, dicendo che l’ipotesi è sul tavolo. La decisione arriverà il 10 marzo. È ovvio che ci avviamo verso la fine di una politica della ‘moneta a basso costo’ (ove non ‘a costo zero’), con il passaggio dal Quantitative Easing (QE) al Quantitative Tightening (QT). Si tratta di capire i tempi del ‘trapasso’.