Mercoledì 24 Aprile 2024

C’era una volta il disco... Adesso la musica è liquida

QUELLO DELLA DISCOGRAFIA è un mondo sempre più complesso che con la digitalizzazione ha cambiato le sue regole, frazionando i servizi e moltiplicando le fonti di guadagno. A parlarne è Enzo Mazza, ceo di Fimi, la Federazione dell’industria musicale italiana che raccoglie le major del disco e una fetta di mercato attorno all’80 per cento. "Ma l’incidenza non è sempre facile da valutare", spiega Mazza. "Questo perché con alcuni artisti le multinazionali hanno solo rapporti di distribuzione".

Quanto pagano le piattaforme e quanto pagano le case discografiche?

"C’è diritto d’autore e ci sono diritti connessi, vale a dire i diritti dei discografici e di altri. Quindi le piattaforme pagano da un lato i diritti d’autore agli editori e a società di collecting tipo la SIAE e dall’altra parte pagano le case discografiche. Questo vale tanto per gli artisti legati con contratto diretto che per quelli distribuiti. Ma ci sono anche artisti che si autoproducono e attraverso un aggregatore vanno direttamente sulla piattaforma che vengono pagati senza alcun tipo di mediazione".

Rapporti diversi e ricavi diversi.

"Ci sono artisti importanti che ricevono grossi anticipi per il loro lavoro, che magari derivano da contratti stipulati ancora nell’era del cd e rimangono in essere anche se non raggiungono gli stessi risultati nell’era dello streaming, e poi ci sono i nuovi artisti, per i quali la crescita dei ricavi in questi ultimi tempi s’è rivelata molto significativa rispetto al passato".

Quali sono i fattori diversi che all’interno di un contratto discografico contribuiscono alla remunerazione dell’artista?

"Ci sono case discografiche che gestiscono l’artista a 360°, quindi non si occupano solo della sua musica registrata, ma anche dell’attività live, del merchandising, delle sponsorizzazioni, delle sincronizzazioni, ovvero l’utilizzo delle loro opere nel cinema o nella comunicazione. Basta pensare quanto rende agli artisti rap quest’ultima attività, per pubblicizzare marchi o lanciare prodotti di moda".

Perché oggi i guadagni delle multinazionali vengono prima dal catalogo e poi dalle novità?

"Intanto bisogna definire cos’è il catalogo. Perché un brano viene definito ‘di catalogo’ dopo 18 mesi. Quindi, gran parte del ‘catalogo’ consumato oggi è successivo al 2010. Quando parliamo di ‘catalogo’, quindi, non ci riferiamo soltanto ad Elvis o ai Pink Floyd, ma di artisti molto più recenti. Questo anche se pure quel catalogo lì è cresciuto rispetto a qualche tempo fa".

Perché, allora, gli editori cercano cataloghi anteriori agli anni Duemila? La musica di oggi non regge la sfida del tempo?

"L’editore guarda a una prospettiva che non è solo quella discografica. E c’è molto catalogo del passato che non ha successo solo nel mondo dello streaming, ma pure in quello del live. Per l’editore il brano deve generare ricavi in tutte le sue utilizzazioni, non solo quelle discografiche. Ci sono evergreen che generano proventi anche per le cover. Basti pensare all’impatto avuto da ‘Beggin’ dei Four Seasons grazie alla rielaborazione dei Måneskin, che ha trainato non solo la versione originale del ‘67, ma pure la versione hip-hop realizzata quarant’anni dopo dal duo norvegese Madcon".