LA SOLUZIONE di un problema complesso come quello dei bassi stipendi italiani non può essere semplicistica. Le ipotesi tornate in auge – legare le retribuzioni all’inflazione, introdurre una legge sul salario minimo, chiedere alle aziende di pagare di più i lavoratori – rappresentano invece ricette accattivanti elettoralmente, ma marginali e inefficaci, quando non controproducenti. Mentre i nodi sono nella produttività perduta, in un sistema economico squilibrato, in domanda e offerta di lavoro che non si incontrano mai. Per cui ha fatto bene il presidente Draghi a convocare le parti sociali, a patto che a quel tavolo non serva alla solita recita. Negli ultimi 30 anni gli stipendi nel nostro Paese sono aumentati in media meno del 3%. Quelli di Francia e Germania del 30%. Oggi la situazione si aggrava per via di un carovita che non si vedeva da 36 anni (inflazione al +6,9%) e che riduce drasticamente il potere di acquisto degli italiani. Tuttavia, pensare di collegare automaticamente le retribuzioni ai prezzi rischia solo di creare una spirale negativa, come ci ha insegnato l’esperienza della ‘scala mobile’ degli anni Ottanta. Sia Draghi che i ministri Orlando e Colao hanno invitato le imprese a pagare di più i lavoratori. Il che in qualche caso è possibile, ma non sempre. Prendete la legge sul salario minimo che a intervalli regolari viene rilanciata dalle forze politiche: in termini ideali è affascinante, ma nella realtà sarebbe una soluzione esclusivamente nominale. È vero che c’è una direttiva europea in gestazione, ma questa ha l’obiettivo di spingere la contrattazione collettiva negli Stati che non la adottano e non, come si vorrebbe invece far credere, istituire un salario minimo europeo. Se le retribuzioni sono indissolubilmente legate all’andamento dell’economia, non è un caso che esse dagli anni Novanta siano aumentate di poco, visto che nel frattempo il nostro Pil ...
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