Martedì 23 Aprile 2024

Bassi stipendi, la ricetta non sta nel salario minimo

Il ministro Andrea Orlando

Il ministro Andrea Orlando

LA SOLUZIONE di un problema complesso come quello dei bassi stipendi italiani non può essere semplicistica. Le ipotesi tornate in auge – legare le retribuzioni all’inflazione, introdurre una legge sul salario minimo, chiedere alle aziende di pagare di più i lavoratori – rappresentano invece ricette accattivanti elettoralmente, ma marginali e inefficaci, quando non controproducenti. Mentre i nodi sono nella produttività perduta, in un sistema economico squilibrato, in domanda e offerta di lavoro che non si incontrano mai. Per cui ha fatto bene il presidente Draghi a convocare le parti sociali, a patto che a quel tavolo non serva alla solita recita. Negli ultimi 30 anni gli stipendi nel nostro Paese sono aumentati in media meno del 3%. Quelli di Francia e Germania del 30%. Oggi la situazione si aggrava per via di un carovita che non si vedeva da 36 anni (inflazione al +6,9%) e che riduce drasticamente il potere di acquisto degli italiani. Tuttavia, pensare di collegare automaticamente le retribuzioni ai prezzi rischia solo di creare una spirale negativa, come ci ha insegnato l’esperienza della ‘scala mobile’ degli anni Ottanta.

Sia Draghi che i ministri Orlando e Colao hanno invitato le imprese a pagare di più i lavoratori. Il che in qualche caso è possibile, ma non sempre. Prendete la legge sul salario minimo che a intervalli regolari viene rilanciata dalle forze politiche: in termini ideali è affascinante, ma nella realtà sarebbe una soluzione esclusivamente nominale. È vero che c’è una direttiva europea in gestazione, ma questa ha l’obiettivo di spingere la contrattazione collettiva negli Stati che non la adottano e non, come si vorrebbe invece far credere, istituire un salario minimo europeo. Se le retribuzioni sono indissolubilmente legate all’andamento dell’economia, non è un caso che esse dagli anni Novanta siano aumentate di poco, visto che nel frattempo il nostro Pil è cresciuto in media meno di mezzo punto all’anno (un terzo di quanto è avvenuto in Europa) e che la produttività del lavoro del settore privato dal 1995 ad oggi sia salita di circa il 10% di fronte ad una media europea del 35% e al 40% della Germania.

Che non sia solo una questione di stipendi, ma di mercato del lavoro che non funziona lo dimostra il paradosso secondo cui molte persone cercano un impiego senza successo e, contemporaneamente, molte imprese cercano lavoratori senza trovarli. Una situazione del genere si risolve solo agendo su un mix di fattori. Su questo si sono trovati d’accordo tre esperti del mondo del lavoro pur con background completamente diversi come Tiziano Treu (presidente Cnel), Marco Bentivogli (ex segretario Fim-Cisl) e Maurizio Stirpe (vicepresidente Confindustria), che ospiti a War Room hanno a turno elencato una serie di elementi su cui intervenire: riduzione del cuneo fiscale, contrattazione decentrata, analisi incrociata tra imprese, scuole, università delle dinamiche del mercato del lavoro, adeguamento delle competenze alla transizione digitale ed ecologica. Elementi di riforma ai quali io ne aggiungo due: detassare gli aumenti salariali (l’ex ministro Maurizio Sacconi propone l’aliquota secca del 10%, come fu nel 2008) e rivedere radicalmente, se non abolire, il reddito di cittadinanza, che premia l’inattività e favorisce il lavoro nero. Insomma, un complesso di provvedimenti che ridiano slancio a crescita e produttività, premessa per salari più ricchi. Tutto il resto è semplicismo spicciolo. Come gli spiccioli delle buste paga attuali.

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