Giovedì 3 Ottobre 2024
CLAUDIA MARIN
Economia

Ichino: "Sì al salario minimo, ma diverso da regione a regione"

Il giuslavorista ed ex parlamentare: “La contrattazione collettiva non basta. La proposta delle opposizioni rischia di penalizzare le regioni del Nord. Sarebbe meglio diversificare le cifre per aree geografiche e settori"

Professor Pietro Ichino, torna in primo piano l’introduzione del salario minimo anche in Italia: come valuta la riapertura del dibattito?

Pietro Ichino
Pietro Ichino

"È una questione annosa – risponde uno dei più autorevoli giuslavoristi italiani, con lunga esperienza anche in Parlamento –. Fino a qualche tempo fa si è pensato che la si potesse considerare risolta con l’estensione dei minimi previsti dai contratti collettivi; ma ora ci si rende conto che la contrattazione collettiva non riesce a coprire parti importanti del tessuto produttivo. E, soprattutto, non copre le collaborazioni continuative formalmente autonome".

Perché, dunque, non lo si introduce, come hanno già fatto quasi tutti i Paesi occidentali?

"Un po’ per la preoccupazione dei sindacati maggiori, che temono di vedere depotenziata la contrattazione collettiva nazionale. Un po’ perché introdurre uno standard minimo uguale per tutto il territorio nazionale pone un problema di difficile soluzione".

Quale?

"Per un verso le forti differenze di costo della vita e di produttività media, anche nell’ambito dei singoli settori, tra Nord, Centro e Sud del Paese; per altro verso le forti differenze del costo della vita, che interessano particolarmente i centri urbani maggiori".

Questo problema non si pone anche per la negoziazione dei minimi nei contratti collettivi nazionali?

"Sì, certo, soprattutto nel settore del terziario e dei servizi: è questo uno dei motivi per cui spesso i sindacati rinnovano i contratti collettivi in questi settori con grande ritardo, quasi tirati per i capelli. Ma, a ben vedere, i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali sono per lo più troppo bassi per il Nord e troppo alti per il Sud, dove metà del lavoro si nasconde nell’economia sommersa".

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Come se ne può uscire?

"La soluzione dovrebbe essere indicata da una legge, che potrebbe essere concertata tra Stato e confederazioni sindacali maggiori, che affidasse all’Istat la pubblicazione di un indice del potere di acquisto della moneta nelle diverse regioni o province".

Le obietteranno che così si reintroducono le “gabbie salariali“ abolite nel 1968.

"È vero proprio il contrario: le “gabbie salariali“ irrigidivano i minimi retributivi in schemi fissi e immutabili, cristallizzando le disparità fra le regioni. Qui invece si tratterebbe di “sgabbiare“ la contrattazione, consentendole di adattare lo standard retributivo in modo intelligente, flessibile, adatto alle circostanze effettive mutevoli nel tempo".

Ma la contrattazione aziendale o territoriale copre soltanto un terzo della forza-lavoro.

"Sarebbe proprio questo il modo per incentivarne l’estensione: diventerebbe uno strumento essenziale per l’adattamento dello standard retributivo minimo alle condizioni particolari di città e regioni".

I partiti di centro-sinistra hanno varato una proposta di salario minimo orario nazionale a 9 euro. Che cosa ne pensa?

"La proposta va nella direzione giusta; ma rischia di fissare uno standard troppo basso per Milano e Torino, troppo alto per Reggio Calabria e Caltanissetta. Con il rischio di ampliare lo spazio del lavoro nero al Sud e, paradossalmente, di avere un effetto depressivo sulle dinamiche retributive al Nord, dove vi sono le condizioni anche per standard orari minimi più alti".

Secondo lei perché Renzi non ha aderito alla “cordata“ delle opposizioni?

"Per un motivo squisitamente politico: non vuole avere nulla a che fare con M5S e sinistra-sinistra. Sembra però dimenticare che nel suo Jobs Act, nella delega-legislativa al governo del 2014, era prevista l’istituzione di uno standard minimo orario per tutte le aziende che non fossero coperte da un contratto collettivo nazionale".

Anche il sindacato ha sempre guardato con sospetto se non con contrarietà al salario minimo legale. Ora la Cgil sembra più possibilista. La Cisl rimane contraria.

"Le confederazioni maggiori hanno sempre temuto che l’introduzione di uno standard minimo di fonte legislativa potesse determinare un appiattimento delle retribuzioni verso il basso, perché avrebbe consentito alle imprese di far riferimento a quello standard invece che ai contratti collettivi".

Non è una preoccupazione fondata?

"A mio avviso questo non accadrà, perché il contratto collettivo nazionale svolge per le imprese una funzione molto importante di risparmio di costi di transazione: basta una riga nella lettera di assunzione per richiamare decine e decine di pagine di regolamentazione del rapporto, in linea con gli standard del settore. Il salario minimo universale di fonte statale svolge invece la funzione insostituibile di impedire distorsioni verso il basso in quel 20 o 25% del tessuto produttivo dove il contratto collettivo manca del tutto o comunque l’azienda non vi fa riferimento, non essendovi obbligata. Oltre alla possibilità di coprire anche le collaborazioni autonome continuative".