"Senza gas russo case fredde e aziende chiuse. La verità è che dovremo razionare energia"

Tabarelli (Nomisma): "L’obiettivo del governo è impossibile, bisogna aprire le centrali a carbone e usare la legna per il riscaldamento"

"Mi viene da piangere". Stavolta l’analisi dello studioso è meno distaccata del solito. Non meno lucida. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia e docente dell’Università di Bologna, evita di indorare la pillola: "Probabilmente ci toccherà razionare l’energia, il che significa spegnere i riscaldamenti e la luce, tenere le fabbriche chiuse per qualche ora".

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Professor Tabarelli, il governo conta di rendere l’Italia indipendente dal gas russo in 24-30 mesi. Non è un traguardo alla portata?

"No, non lo è. L’anno scorso la Russia ci ha fornito 29 miliardi di metri cubi di gas. E di gas in giro non ce n’è. In questi anni sono mancati gli investimenti per trovare nuovi giacimenti e realizzare rigassificatori. Non sono operazioni che si portano a termine nell’immediato. E 24-30 mesi, nel campo dell’energia, sono l’immediato".

Come fa, quindi, il ministro Cingolani a fissare questo obiettivo?

"Me lo chiedo anch’io".

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Se decidessimo davvero di chiudere i rubinetti di Mosca, o se Putin bloccasse l’esportazione delle materie prime, cosa succederebbe?

"Faccio fatica a immaginarlo, se non prevedendo di stare al buio e al freddo, e di chiudere le fabbriche. La situazione sarebbe drammatica, da economia di guerra. Un’esperienza simile a quella vissuta dai nostri nonni nel Novecento. E gli importi delle bollette salirebbero ulteriormente".

È uno scenario inevitabile?

"Non sono un esperto di geopolitica, ma la decisione sembra presa: Biden ha annunciato lo stop all’importazione di greggio russo, il Regno Unito lo segue e credo che l’Europa farà lo stesso".

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Il Tap può essere una via di uscita?

"Abbiamo impiegato quindici anni per completarlo, ce ne vorrebbero quattro per raddoppiarlo. E miliardi di investimenti. Avremmo bisogno di altri quattro o cinque Tap e di due o tre rigassificatori in più".

Le rinnovabili sono un’alternativa realistica?

"Le rincorriamo da più di un secolo. Mi piace sempre ricordare quello che abbiamo fatto quando eravamo molto più poveri di adesso: c’era la guerra, affrontavamo le sanzioni per l’invasione dell’Etiopia nel ‘36, eppure abbiamo spinto sull’idroelettrico. Le rinnovabili, comunque, non sono la soluzione, non producono energia stoccabile".

Cos’altro si può fare?

"Bisognerebbe essere più flessibili. E aprire subito le centrali a carbone ancora esistenti, usare legna, gpl e gasolio per il riscaldamento. Poi si può cercare di ottenere un po’ più di gas da Libia, Algeria, Olanda e Norvegia".

È possibile intervenire in qualche modo sulle dinamiche di mercato?

"Sì, pare che la Commissione intenda fissare un tetto ai prezzi del gas".

Il governo sembra aver imboccato la via della diversificazione per l’approvvigionamento energetico. È la strada giusta?

"Certo, ma ci vorrà tempo per arrivare al traguardo".

Si poteva prevenire una crisi di queste dimensioni?

"Impossibile, ed è troppo facile criticare ora. Probabilmente noi esperti non siamo stati sufficientemente chiari quando parlavamo di un’Italia troppo dipendente dal gas estero. La gente non vuole sentire parlare di gas, piacciono soltanto i pannelli fotovoltaici. Forse siamo un po’ viziati e adesso ne paghiamo le conseguenze".

In questo contesto l’obiettivo europeo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2025 è accantonato?

"Per il momento sì, ora c’è un’altra priorità. Ma poi, se la volontà è quella di abbandonare i fossili, ci sarà un’accelerazione".

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