Venerdì 13 Giugno 2025
GIORGIA DE CUPERTINIS
Finanza e Risparmio

"Nuovi orizzonti si aprono oltre i confini degli Usa"

NELL’ULTIMO decennio, mentre l’S&P 500 registrava performance eccezionali, azionario e debito emergenti sono rimasti indietro, alimentando così la percezione che...

IL PROFILO DETTAGLIO Sammy Suzuki (in foto) è responsabile delle attività di AllianceBernstein nell’azionario dei mercati emergenti. È entrato in AB nel 1994 come ricercatore associato, occupandosi del settore dei beni strumentali, poi di quello tecnologico e automobilistico globale

IL PROFILO DETTAGLIO Sammy Suzuki (in foto) è responsabile delle attività di AllianceBernstein nell’azionario dei mercati emergenti. È entrato in AB nel 1994 come ricercatore associato, occupandosi del settore dei beni strumentali, poi di quello tecnologico e automobilistico globale

NELL’ULTIMO decennio, mentre l’S&P 500 registrava performance eccezionali, azionario e debito emergenti sono rimasti indietro, alimentando così la percezione che gli Stati Uniti performino necessariamente meglio dei Paesi in via di sviluppo. Ciò, però, non è necessariamente vero, e la storia ce lo dimostra. Se guardiamo al periodo 2001-2010, il consenso puntava sugli Stati Uniti (con tutti gli occhi rivolti alla Silicon Valley, epicentro dell’innovazione), mentre i mercati emergenti venivano evitati, ancora segnati dalle turbolenze finanziarie di fine anni ’90, tra la crisi asiatica, il default del debito russo, la ’Tequila crisis’ messicana. Invece, furono proprio gli emergenti a brillare in quel periodo, mentre Wall Street arrancava. Nel 2010, poi, il mercato ha ribaltato le aspettative: il consenso si è spostato a favore degli emergenti, ma la sovraperformance prevista non si è concretizzata. Questo insegna come nei mercati, spesso, proprio quando il consenso è unidirezionale, accade l’esatto contrario. Oggi potremmo trovarci in una situazione simile ad allora: veniamo da un contesto in cui si guarda prevalentemente agli Stati Uniti – e per buone ragioni – trascurando altre aree promettenti. Eppure, nonostante i dazi e l’alta volatilità, l’azionario emergente è in rialzo mentre l’S&P è in calo, il che segnala che potremmo essere a un punto di svolta.

In questo contesto, l’andamento del dollaro porta a fare una riflessione ulteriore. Da un lato, infatti, la narrativa dominante è che la valuta sia debole; dall’altro, i numeri raccontano di più. Guardando i dati, infatti, dagli anni ’70, in termini di tassi di cambio effettivi reali, il dollaro USA è quasi il più caro della sua storia. La valuta è stata più forte solo in due occasioni: negli anni ‘60, quando gli Stati Uniti erano ancora legati al gold standard e il dollaro rappresentava la valuta di riferimento assoluta per il commercio internazionale, e negli anni ‘80, quando la reaganomics ha spinto le valutazioni della moneta Usa al punto da compromettere la competitività dell’industria americana, e portare così Washington a negoziare un accordo mirato, in particolare con Giappone e Germania, per riequilibrare la situazione.

Oggi il dollaro è vicino a quei livelli di forza, ma con dinamiche economiche diverse. Quello che possiamo ipotizzare è l’entrata effettiva in un ciclo di deprezzamento del dollaro americano che, come ogni ciclo valutario, tende a essere lungo. Le valutazioni non sono un buon predittore nel caso delle valute, ma il connubio tra valutazione e trend è così forte che le probabilità che si entri in una fase ribassista sono più alte del normale. Ciò beneficerebbe asset non legati al dollaro, e non solo i mercati emergenti, particolarmente ben posizionati per via delle basse aspettative.

L’incognita, in questo quadro, restano le possibili evoluzioni delle politiche commerciali globali, che potrebbero alimentare nuove opportunità in aree ancora sottovalutate. A mio avviso, tali politiche non sono sostenibili a lungo, e sarà necessario rivalutarle. Da un lato, infatti, ritengo improbabile il ritorno del manifatturiero negli Stati Uniti, e non solo per i costi della manodopera, ma perché il tasso di produttività è più basso. Più plausibile è invece lo spostamento verso altre aree, come India, Indonesia, Vietnam o Messico. D’altra parte, basta fare un giro in un qualsiasi supermercato americano: oltre la metà dei prodotti proviene dalla Cina, ed è difficile pensare che i consumatori siano disposti a pagare il 50% o addirittura il 100% in più per gli stessi articoli. La mossa di Trump è stata a valanga e 90 giorni di deroga sono pochi per trovare una quadra. Washington deve trattare contemporaneamente con tanti Paesi e gli accordi bilaterali richiedono tempo. Arrivare a un risoluzione con la Cina dovrebbe essere al centro delle priorità, con Pechino che probabilmente spingerà per un accordo valido quattro anni, per non dover riprendere i negoziati nel giro di pochi mesi. Il Paese del Dragone, da parte sua, in questi anni in cui ha già subìto pressioni commerciali, ha rafforzato la propria resilienza economica, aumentando la sua quota nelle esportazioni globali e diversificando le rotte commerciali, dimostrando di essere meno dipendente dagli Stati Uniti di quanto si creda.

Queste dinamiche aprono nuove porte verso i Paesi in via di sviluppo, ma richiedono un approccio selettivo. Innanzitutto, non influenzeranno solo le società cinesi o non-USA: molte aziende a stelle e strisce, che affidano parte della produzione all’estero, potrebbero trovarsi in difficoltà nel trasferire l’incremento dei costi sui consumatori. Ciò potrebbe mettere sotto pressione i beni di consumo discrezionali, soprattutto il tessile e l’automotive, dove anche attori come Tesla rischiano di perdere quote di mercato a favore di nuovi modelli EV cinesi, più performanti ed economici. D’altra parte, vediamo opportunità in regioni come gli Emirati Arabi Uniti, dove Dubai si sta affermando come rifugio sicuro, e in Brasile, che beneficia di un crescente interesse da parte degli investitori sia sul fronte valutario che azionario. Nel caso in cui la guerra commerciale limitasse ulteriormente la capacità degli Stati Uniti di esportare prodotti agricoli verso la Cina, Pechino potrebbe dover rivolgersi a nuove fonti, e Rio risulta una destinazione rassicurante. Anche la Grecia ha compiuto significativi progressi nella ristrutturazione della propria economia, e le banche in particolare ora presentano bilanci più solidi, con valutazioni a sconto rispetto al potenziale di crescita a medio-lungo termine.

Head of Emerging Markets equities di AllianceBernstein