Diamanti sintetici: la scelta etica di Pandora

Il colosso danese dei gioielli rinuncia alle pietre naturali per salvaguardare l’ambiente. Così si abbatteranno prezzi e costi di produzione

Marilyn Monroe nel 1953 canta 'I diamanti sono i migliori amici delle donne'

Marilyn Monroe nel 1953 canta 'I diamanti sono i migliori amici delle donne'

Una storia di lusso e un futuro di massa. È l’evoluzione del diamante. Già, perché la più grande catena di gioielli al mondo, la danese Pandora, rivoluzionerà il mercato dei migliori amici delle donne. E lo farà con la linea Pandora Brilliance, brillanti coltivati in laboratorio dal carbonio, garantiti identici alle gemme naturali e classificati secondo le 4C, cioè cut, colour, clarity e carat (inutile la traduzione per gli appassionati).

Un elemento li renderà preziosi anche eticamente: l’impiego di oltre il 60% di energia rinnovabile, con l’obiettivo di arrivare al cento per cento l’anno prossimo. Un altro elemento li renderà appetibilissimi: prezzi a pochi zeri, grazie a costi di produzione più bassi di almeno un terzo rispetto all’estrazione nelle miniere. Luogo di realizzazione e lancio iniziale, il Regno Unito. Il resto del mondo può attendere il 2022. Certo, solitari sintetici già da anni impreziosiscono dita e décolleté, ma questa mossa spariglia le carte perché Pandora lancia una crociata ambientalista e, insieme, una sfida ai giganti De Beers e Tiffany, che tardano a convertirsi alla sostenibilità. "Diamanti per tutti" promette Alexander Lacik, al vertice della catena di gioielli. Ma, prodotti in laboratorio e venduti a basso prezzo, perderanno forse il fascino della pietra rara che si forma in miliardi di anni.

Ecco perché nel 2019, quando anche De Beers con i suoi 130 anni di miniere alle spalle si era timidamente e controvoglia affacciato su questo nuovo mercato, la rivista americana Forbes aveva vaticinato un autogol. Eppure, si sa, la pietra naturale è macchiata di sangue. I diamanti provengono da aree di conflitti, finanziano i signori della guerra e il lavoro nelle miniere è la negazione dei diritti umani. Il film Blood Diamond del 2006 denuncia tutto ciò con scene talmente forti che il protagonista, Leonardo Di Caprio, figura oggi tra i principali azionisti di Diamond Foundry, società specializzata in gemme sintetiche che quintuplicherà la sua produzione.

I numeri sostengono questa scommessa: il costo di realizzazione del brillante da laboratorio oscilla oggi tra 300 e 500 euro a carato contro i 4mila dollari a carato che richiedeva nel 2008. Il giovane mercato copre una quota di appena il 5%, ma negli ultimi due anni è cresciuto a ritmi del 15-20%, mentre la vendita delle pietre naturali, complice il Covid, è calata di oltre il 15%, con i prezzi calati dell’11 per cento.

Ecco perché, all’annuncio della totale conversione ai preziosi sintetici, Pandora ha guadagnato quasi il 6% alla Borsa di Copenaghen.

La strategia del gruppo punta sull’immagine eco-sostenibile cui molti suoi clienti sono sensibili: è tra i giovani che anni fa è scoppiata la Pandora-mania dei braccialetti componibili a piacimento. Sempre in chiave verde, entro il 2025 tutto l’oro e l’argento venduti saranno riciclati. Un’offensiva imponente, considerato che il gruppo danese vende circa 85 milioni di pezzi l’anno. Il diamante naturale è così a un bivio: o sarà sempre più costoso, e quindi elitario, oppure il suo luccichio verrà oscurato dall’eco-brillante.

Gli orafi sono sulla difensiva. Non chiamateli diamanti, dicono, le protagoniste dell’alta gioielleria restano le gemme estratte, per il loro fascino e la loro unicità. Uno slogan che rischia di suonare anacronistico anche per il James Bond di Una cascata di diamanti.

 

 

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