Di vela, soft skills, competenze e qualcos’altro

La scuola di vela come metafora e come pratica della formazione professionale e del team building aziendale nel racconto di un'esperienza di mare di Agostino di Maio, manager e "apprendista marinaio".

Scuola di vela - Caprera

Scuola di vela - Caprera

Lo premetto subito, a scanso di equivoci: non sono un velista esperto, molto probabilmente  nemmeno un velista, ma sono reduce da una seconda fantastica esperienza di formazione al Centro Velico di Caprera dalla quale torno con un enorme bagaglio di emozioni e una serie di riflessioni che vanno al di là dello stretto perimetro marinaresco.

Navigare utilizzando solo ciò che madre natura ti offre, e ti toglie, in ogni momento (direzione e intensità del vento, correnti, temperature, condizioni meteo, forma delle onde) significa in primo luogo avere una costante capacità di ascolto e di lettura di tutto ciò che ti sta intorno (capacità di analisi, competenza). Bisogna essere pronti a cogliere ogni opportunità e a reagire alle avversità, quando il contesto muta. Una piccola colonna di fumo sulla costa vicina, l’orientamento dei gabbiani appollaiati sugli scogli, la schiuma che si forma sulle onde, il variare con il vento della tensione sulle scotte (corde, mi perdonino i miei istruttori) che regolano le vele sono tutti elementi che aiutano chi sa vederli per trovare la rotta migliore (competenza, problem solving, pensiero logico).

La prima cosa che provi sulla tua pelle quando vai a vela è che non puoi sapere con precisione quanto tempo impiegherai per andare dal punto A al punto B (meglio non prendere appuntamenti): puoi solo fare di tutto per coprire le distanze nel miglior modo possibile, sfruttando tutto quello che hai in barca e fuori. A pensarci bene un bel capovolgimento di prospettiva e un esercizio Zen di non poco conto se guardiamo alle nostre giornate di lavoro spesso scandite da agende troppo zeppe e da timesheet senza senso.

Non si può navigare se nell’equipaggio non si crea poi quella capacità di lavorare e faticare insieme per il conseguimento dell’obiettivo comune rendendo cioè sempre proficua l’andatura e la direzione della barca (capacità di lavoro in team e di interazione). Questa efficienza la si consegue - mai completamente e mai  troppo a lungo ahimè – con mille e ripetute regolazioni, alcune faticose come cazzando, cioè mettendo ripetutamente in tensione le scotte delle vele, altre tecnicamente complesse, lavorando di fino con il timone. Sebbene ciascun membro dell’equipaggio abbia in genere un compito prevalente si è costantemente obbligati a coordinarsi ed aiutarsi reciprocamente, pena l’errata finalizzazione delle manovre. Per fare questo occorre parlarsi, qualcuno deve dare gli ordini e gli altri li devono eseguire: si può anche discutere su cosa sia più opportuno fare (in genere con risultati nefasti) ma una volta deciso le indicazioni le dà un uomo solo (capacità di comunicazione e integrazione, lavoro in team, leadership).

Poi c’è la fatica: è relativamente facile, per modo di dire, fare tutto ciò quando le energie  sono tante, magari a inizio giornata. Ma quando sei sfiancato da ore di virate e strambate, quando le mani sono segnate dalle scotte nonostante i guanti, i muscoli indolenziti e da troppo tempo soffri il freddo o il caldo e il tuo timoniere ti propone (rectius: ordina) l’ennesima virata per prendere quell’oncia di vento in più prima lo vorresti veder penzolare dall’albero maestro ma poi la fai, al meglio delle tue possibilità, perché capisci che è la cosa giusta (resilienza, resistenza allo stress, motivazione, dedizione, autodisciplina) . Così allo stesso modo quando ti siedi per un attimo illudendoti di esserti guadagnato quei venti secondi di tregua e invece ti invitano a spostare velocemente il tuo peso sul lato opposto della barca per bilanciarla e guadagnare quel millesimo di secondo in più che però metti fossimo alla Coppa America magari ci farebbe vincere la regata. In questa via Crucis nasce per forza con i tuoi compagni, ovviamente se non li hai uccisi prima, una chimica e uno spirito di corpo straordinari, nel mio caso trasformati in amicizia e stima, che possono nascere solo dall’aver affrontato insieme le difficolta. Quando poi torni alla base di armamento ti confronti con gli altri equipaggi e scopri che questo cameratismo scatta naturalmente anche con tutti gli altri, se non altro perché ti trovi a sorseggiare il peggiore caffe del mondo che in quel momento ti sembra però il migliore che tu abbia mai bevuto (pazienza, autodisciplina).

A Caprera ci si dà  tutti del tu e le barche degli allievi sono uguali (come le condizioni meteo, ovviamente): si azzerano in questo modo le distanze, sociali, anagrafiche, territoriali e culturali, e l’unica cosa che conta sono le scelte che compi in navigazione  con il  tuo equipaggio e come ti relazioni a terra con gli altri compagni. Comportamenti divisivi sono rapidamente messi al bando (sensibilità, empatia, capacita di integrazione).

Accanto alle uscite in mare (pratica) ci sono le lezioni d’aula (teoria) dove sei chiamato a imparare, trattenere e applicare ciò che ti viene trasmesso non solo dagli istruttori ma anche dai compagni. Capisci ancora una volta che solo imparando evolvi, solo studiando puoi avere gli strumenti per  “leggere” cosa accade intorno a te e magari anticipare cosa ti potrà  accadere in futuro (life-long learning). Solo in questo modo arricchisci quel tuo piccolo bagaglio  personale che a lungo andare scopri essere non più solo tecnico bensì uno stile di vita, perché andare a vela in fondo in fondo è molto simile al provare a vivere quanto più consapevolmente possibile, cercando di essere naviganti ma anche uomini migliori. Accanto al mio letto a castello c’era questa scritta: “La scuola e l’isola sono come uno specchio che riflette una parte di noi che non conosciamo”. La trovo bellissima e credo che si possa applicare sia alle nostre professioni nelle quali quotidianamente siamo chiamati a generare valore ma anche  alle vite che conduciamo, come fossero piccole barche.

Se cosi è, allora buon vento a tutti.

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