Decreto anti-delocalizzazioni, gli errori da evitare

Enzo De Fusco, uno dei principali consulenti del lavoro italiani, mette in guardia il governo sui rischi e le contraddizioni del provvedimento in gestazione tra Lavoro e Sviluppo economico. "Il pericolo più grande - avvisa - è di far fuggire anche le imprese che vogliono realizzare nuovi investimenti in Italia".

Enzo De Fusco, consulente del lavoro

Enzo De Fusco, consulente del lavoro

La norma attuale

I problemi occupazionali che derivano dalle cessazioni dei siti produttivi nel periodo post pandemia non sono diversi da quelli del passato che abbiamo registrato durante la crisi finanziaria.

L’attuale quadro normativo va solo implementato con idee innovative di politica attiva. Oggi la legge obbliga già le aziende prima di chiudere un’unità produttiva ad un confronto con i sindacati e le Istituzioni che deve durare non meno di 75 giorni e da questo confronto si può arrivare al riconoscimento da parte dello Stato di una cassa integrazione specifica che può durare fino a 18 mesi, a condizione che l’impresa presenti un piano di politiche attive per la salvaguardia occupazionale.

L’esigenza di un nuovo decreto

Francamente non si sentiva l’esigenza di un nuovo decreto su questa materia soprattutto nei contenuti rigidi che sono circolati nelle bozze. Infatti, questa bozza non fa altro che confermare la procedura esistente e ne fa precedere un’altra dai contenuti sostanzialmente analoghi. Ma se è stato valutato che la procedura attuale non ha funzionato, tale da dover fare un nuovo decreto, perché una nuova procedura simile dovrebbe funzionare meglio? L’unica conseguenza di questa scelta è che le cessazioni continueranno ad esserci: solo che le imprese sono più ingessate perché per chiudere un sito ci vorranno 8 mesi e non più 2 mesi e mezzo.

A chi si applica il nuovo decreto

L’intenzione è di applicare le nuove regole a tutte le tipologie di aziende: industriali, commerciali o di servizi con più di 250 dipendenti a tempo indeterminato calcolati al 1 gennaio 2021 che intendono procedere alla chiusura di un’unità produttiva per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza. Effettivamente questa definizione è pericolosa perché come si fa a stabilire quando uno squilibrio rende “probabile” la crisi o l’insolvenza? La conseguenza di questa impostazione non è tutelare l’occupazione ma generare un elevato contenzioso di cui non sentiamo proprio il bisogno.

Si applica anche a chi non delocalizza all’estero

Purtroppo, se l’impostazione del decreto è confermata, saranno interessate tutte le chiusure di unità produttive e non solo quelle che delocalizzano all’estero.

Si pensi ad un’azienda che ha una catena di abbigliamento: è sufficiente accorpare due negozi per incappare nella nuova procedura. Ogni giorno si chiudono moltissimi negozi in alcuni territori e altri se ne aprono in funzione dell’andamento di mercato. Se ogni volta che si chiude un negozio bisogna avviare procedure duplicate e lunghe si rischia di ingessare in mercato con la conseguenza di mettere a rischio anche i lavoratori non interessati dalla chiusura.

Quali sono i nuovi obblighi

L’azienda prima di chiudere un’unità produttiva deve inviare una comunicazione preventiva a sindacati e Istituzioni dichiarando l’intenzione di chiudere. Entro 90 giorni l’azienda deve predisporre un piano sociale di tutela occupazionale che dovrà essere discusso entro i successivi 30 giorni. Questi 30 giorni potranno essere prorogati di ulteriori 30 giorni. Dopo questa procedura il piano può o meno essere approvato. A questo punto parte l’attuale procedura di confronto con gli stessi operatori e sugli stessi contenuti per ulteriori 75 giorni. Insomma, una duplicazione che sembra davvero poco efficace.

Le sanzioni

La bozza di decreto prevede due sanzioni: l’eliminazione dai contributi pubblici per i successivi 5 anni in caso di mancato rispetto della procedura e il pagamento di un ticket per ogni licenziato che può arrivare fino a 15.000 circa.

Questo provvedimento andrebbe coordinato con il decreto dignità che prevede la restituzione dei contributi pubblici beneficiati dalle aziende che nei 5 anni precedenti la cessazione del sito produttivo, se delocalizza in territori extracomunitari.

Però sono convinto che un’azienda multinazionale che chiude un sito produttivo in Italia non sarà certo scoraggiata dal fatto che nei successi 5 anni lo Stato italiano non le riconoscerà più alcun contributo visto che probabilmente in Italia non ci saranno altri siti produttivi interessati.

Che cosa si può fare

La strada per gestire gli esuberi derivanti dalla chiusura dei siti produttivi non è ostacolare le stesse chiusure ma occorre mettere in piedi un progetto di politiche attive efficace e funzionate. Ciò che noi non abbiamo e quindi per questo si adottano scelte più rigide.

Una cosa innovativa che si potrebbe fare è una norma che responsabilizzi e incentivi le imprese gestendo in modo diretto gli esuberi derivanti dalla chiusura del sito produttivo. L’impresa conosce i lavoratori, ha la propria rete attraverso le associazioni di categoria e le agenzie per il lavoro, conosce il territorio in cui ha operato ed ha la capacità formativa per riqualificare le persone. Se tutto questo viene affidato alle imprese con un adeguato sistema incentivante, sono certo che il problema avrà una dimensione molto ridotta rispetto a quella attuale.