I microchip introvabili mandano in crisi le aziende. Le soluzioni di Ue e Usa

Tensioni geopolitiche, calamità naturali, ma anche lo smart working hanno reso difficile reperirli. E l'Italia stringe un accordo con l'Intel per produrli qui

Un microchip (Ansa)

Un microchip (Ansa)

Negli ultimi mesi se n’è parlato soprattutto a proposito degli effetti nefasti sull’industria automobilistica europea che, secondo le stime, chiuderà il 2022 con una perdita di circa 50 miliardi di euro (dopo i 50 già polverizzati nel 2021). La crisi globale dei microchip - semiconduttori elettronici miniaturizzati, dotati di una prodigiosa capacità di memoria – riguarda in realtà quasi tutti i settori produttivi, dall’elettronica di consumo all’illuminazione, dagli elettrodomestici al biomedicale. Ed è sufficiente aprire il portafoglio per accorgersi che i microchip sono ovunque: sulla tessera sanitaria, sulla carta d’identità, sulle carte di credito e di debito. Già, perché è merito di questi minuscoli semiconduttori se siamo immersi in un mondo sempre più digitalizzato e ‘smart’, nel quale possiamo usufruire di svariati servizi senza muoverci da casa e senza dover utilizzare, ad esempio, documenti cartacei o denaro contante. Da più di due anni a questa parte, tuttavia, i microchip sono introvabili, al punto che alcune aziende hanno fatto ricorso a strategie insolite pur di non fermare la produzione: basti pensare a una casa automobilistica olandese che, secondo quanto riferito dalla stampa locale, avrebbe acquistato uno stock di lavatrici per recuperare i chip presenti al loro interno e riutilizzarli per i propri prodotti.

Ma quali fattori hanno scatenato la crisi dei microchip? In primis, l’improvvisa corsa all'acquisto dei dispositivi elettronici (pc, tablet, stampanti) necessari per lavorare da casa durante la pandemia. A ciò si sono aggiunte le tensioni geopolitiche internazionali: da un lato, l’inasprirsi delle tensioni commerciali tra Usa e Cina ha spinto i colossi cinesi delle telecomunicazioni a fare piazza pulita di microchip per rimpinguare le proprie scorte; dall’altro lato, la guerra russo-ucraina ha rallentato le forniture di gas neon, sostanza che riveste un ruolo fondamentale nella produzione di semiconduttori (circa la metà del gas neon del mondo proviene dall’Ucraina). A complicare ulteriormente il quadro, ecco le calamità naturali: nel 2021, in particolare, fenomeni atmosferici devastanti hanno coinvolto le regioni in cui è concentrata la maggior parte degli impianti di produzione di semiconduttori (in Asia, ma anche in Nord America). E le ripetute scosse di terremoto in Giappone, tra l’autunno 2021 e il marzo 2022, hanno bloccato la produzione di uno dei principali fornitori di microchip. È stata la crisi energetica – in particolare, un’interruzione di corrente – a bloccare, infine, uno dei maggiori stabilimenti ad Austin, in Texas.

La carenza di microchip ha posto sotto i riflettori la fragilità di molte catene di approvvigionamento ed evidenziato, ancora una volta, il problema dell’eccessiva dipendenza dall’estero delle filiere europee. Un annoso problema cui la Commissione europea, nei mesi scorsi, ha cercato di porre rimedio con un programma studiato per incoraggiare l’industria dei microchip a investire nei Paesi Ue. Denominato 'European chips act', il piano prevede un investimento da 43 milioni di euro tra fondi pubblici e privati e ha l’obiettivo di raggiungere almeno il 20% del valore della fabbricazione mondiale di semiconduttori. In effetti, uno spiraglio pare essersi aperto: a poche settimane dalla fine del proprio mandato, il governo uscente del premier Draghi avrebbe stretto un accordo con il colosso dei microchip Intel per la costruzione di una fabbrica in Italia. La notizia è trapelata pochi giorni fa: la multinazionale americana avrebbe scelto la cittadina veneta di Vigasio, in provincia di Verona, per collocare uno stabilimento che, a pieno regime (tra il 2025 e il 2027), dovrebbe impiegare 1.500 dipendenti e creare altri 3.500 occupati dell’indotto. L’apertura della fabbrica in Italia farebbe parte di un più ampio piano di investimento in Europa da 80 miliardi di euro in dieci anni, annunciato a marzo scorso dalla stessa Intel.

Parallelamente, anche gli Stati Uniti puntano decisamente sull’indipendenza della propria filiera: l'amministrazione Biden ha recentemente annunciato il 'Chips act', un piano da 52 milioni di dollari a sostegno della produzione nazionale di microchip. "Una tecnologia inventata e perfezionata negli Stati Uniti", ha sottolineato Biden nel presentare l'iniziativa, da lui definita "un investimento gigantesco, in grado di generare posti di lavoro e tecnologie all’avanguardia". Il capo della Casa Bianca ha tuttavia precisato che le aziende statunitensi accederanno ai fondi solo se si impegneranno a non realizzare strutture o stabilimenti in Cina per almeno 10 anni. La nuova guerra fredda, dunque, passa anche dal controllo dei semiconduttori.

 

Maddalena De Franchis