Martedì 23 Aprile 2024

Crisi Cina, ecco perché il Dragone non vola più

Restata sorpresa solo una finanza cieca. Azioni a picco e yuan svalutato, colpa anche degli errori del governo.

Alberto Forchielli

Alberto Forchielli

Hong Kong, 25 agosto 2015 - Nel bel mezzo di quello che viene definita la "tempesta perfetta" i mercati stanno dimostrando, ancora una volta, la loro cecità. Accorgendosi, stretti nella morsa di una crisi di panico, di qualcosa che era ineluttabile e facilmente immaginabile anche un anno fa. La straordinaria crescita della Cina è finita, il Pil del Dragone non aumenterà più ai ritmi del 7% l’anno. Una fase eccezionale nella storia dell’economia mondiale, un Paese cresciuto ininterrottamente per 35 anni a doppia cifra, si è chiusa. E il mondo sta facendo i conti con una conseguenza inevitabile, suonando due allarmi: le Borse crollano e lo yuan si svaluta. Due spie che hanno indotto il governo cinese a commettere due errori madornali.

Il primo errore è stato indurre il popolo cinese a credere che il governo avrebbe sostenuto la Borsa e che un futuro sempre più prospero passava attraverso i listini di Shanghai e Shentzen. Dopo 66 anni di governo ferreo del partito, nessuno ha osato mettere in dubbio quegli annunci. 120 milioni di cinesi, una stima approssimata per difetto, si sono scatenati a comprare azioni, spingendo i listini a crescere in maniera eccessiva. Con i valori di listino balzati anche del 400%. A quel punto gli investitori più avveduti hanno cominciato a vendere. I primi segni negativi hanno scatenato l’effetto paura nel «parco buoi» dei risparmiatori; viste le dimensioni, le conseguenze sono state eclatanti.

IL GOVERNO ha sentito troppo la pressione dei 120 milioni di risparmiatori in fuga dalla Borsa; ha cercato di fermare un fiume in piena, investendo 200 miliardi di dollari in titoli. Per qualche giorno ha tamponato la situazione, i listini di Shanghai e Shentzen hanno rallentato la caduta. Ma la capitalizzazione totale è di 5mila miliardi di dollari, se il governo avesse continuato a comprare titoli, in pratica avrebbe rinazionalizzato le società che aveva quotato, affidandole al mercato. Le tendenze ribassiste hanno ripreso quota, così il governo ha capito di aver commesso il secondo grande errore: non puoi condizionare un mercato finanziario, anche se l’hai creato in laboratorio, la Borsa Frankenstein è sfuggita al controllo del partito creatore. Così Xi Jinping si è arreso e ha rinunciato al proposito di tenere in piedi artificiosamente le quotazioni. Che sono, ovviamente, precipitate. E continueranno a crollare ancora, come insegna la bolla del ‘dotcom’ in Occidente, visto che i mercati sono ciechi ovunque.

QUALI saranno le conseguenze della tempesta cinese? Chi teme la scomparsa di una classe media che si affacciava timidamente alla ribalta, forse si ricrederà. I cinesi hanno investito una parte dei loro risparmi in Borsa, il grosso è altrove, spesso è in contanti. Non ci sarà un crollo dei consumi come nel caso di Wall Street. Anche se moltissime multinazionali dovranno fare i conti con i listini precipitati e lo yuan svalutato, quindi con una domanda cinese che non sarà più come pensavano. Da Apple ai colossi del petrolio, dai giganti dell’auto alle griffe del lusso (in crisi però già da due anni), devono ricalibrare i loro bilanci, sapendo che non riusciranno a vendere macchine, computer e vestiti come prevedevano sei mesi fa. E così si accorgeranno, con i loro utili in flessione, di un processo in atto da un paio di anni.

Le conseguenze più gravi vengono dalla svalutazione dello yuan. La fuga dei capitali in Cina è passata da 400 miliardi di dollari all’anno, a 70 miliardi al mese. Non sono soldi che vanno all’estero, almeno non solo. Se continuerà così, le riserve statali cinesi, che assommano a 3 trilioni di dollari, si prosciugheranno in 5 anni. Che cosa accadrà ora? È facile che la Borsa perda un altro 20%, che il Pil cresca «solo» del 4% e che lo yuan possa svalutarsi, rischiando un’altra fuga di capitali. Le multinazionali faranno meno utili, le riforme che Xi Jinping voleva accelerare, dai mercati alle piccole e medie imprese da far nascere, conosceranno una pausa di riflessione. La burocrazia di Pechino, il partito e i poteri forti gli presenteranno il conto e alzeranno nuove muraglie contro le riforme. E Xi resterà in mezzo al guado, di una Cina colpita nel pieno della sua trasformazione capitalistico-dirigista.

Drammatizzare gli effetti però potrebbe rivelarsi un errore. I risparmiatori, cinesi e occidentali, hanno tutto da guadagnare da un petrolio che costa meno, da euro e dollaro che acquistano più potere. Che poi le grandi imprese facciano meno utili, è un problema per amministratori e azionisti.

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