Giovedì 18 Aprile 2024

Coach aziendale, il mestiere del futuro È un allenatore il miglior amico dell’amministratore delegato

ROMA

NEGLI STATI Uniti è una professione conosciuta e per la quale molte università offrono programmi di formazione. Qui da noi, invece, ha iniziato ad affermarsi da poco, mentre il grande pubblico probabilmente continua ancora a non conoscerla affatto. Il suo nome evoca personaggi come Dan Peterson e altri grandi dello sport americano, ma... «Ma la differenza è che un allenatore sportivo è parte del risultato. Se la squadra vince, vincono anche Mourinho e Conte che la allenano. Se perde, perdono anche loro e alla lunga verranno esonerati. Per noi invece non è esattamente così: c’è una relazione più indiretta tra il nostro ruolo e i risultati». Stiamo parlando del coaching aziendale, una delle nuove professioni più promettenti e di cui Pier Paolo Colasanti è l’indiscusso pioniere italiano. Nel settore già dalla fine degli anni Novanta, è l’autore del libro ‘Diventare coach’ e ceo di Asterys Lab, dedicata alla formazione e allo sviluppo di nuovi professionisti.

Perché, se le cose vanno male, non venite esonerati?

«Vede, siamo dei facilitatori di processo e non di contenuto. Ci poniamo in un modo neutro nei confronti dei clienti: non diamo consigli sulle scelte concrete che devono compiere, né li indirizziamo in alcun modo, semmai invece li aiutiamo a scoprire da soli le soluzioni. L’errore più grande è quello di manipolarli e renderli meno autonomi».

Un esempio?

«Sto lavorando con una persona che siede in un cda. La sua difficoltà non è tecnica, perché è bravissimo, ma nelle relazioni: la capacità di preoccuparsi delle emozioni, di quello che succede a chi lavora con lui. Ora, non è facile far emergere il collegamento tra il mio lavoro e i risultati aziendali, ma, se ben condotto, può trasformare completamente il clima nel quale vive tutto il team, e questo si può misurare».

Come definirebbe la sua professione?

«È un’attività di supporto per il miglioramento delle performance e il raggiungimento degli obiettivi. Il coach si avvale del dialogo, sia uno a uno che in gruppo, per fare in modo che i clienti abbiano la capacità di ridefinire le priorità, analizzarle e trovare le migliori strategie. Siamo bravi a scoprire domande che creano nuovi percorsi di risposta, siamo dei creatori di consapevolezza e di visioni più ampie, diciamo. Accompagniamo nel cambiamento di prospettiva».

Quindi non è necessario che siate competenti nell’attività specifica del cliente?

«Paradossalmente se un coach è troppo competente nello stesso ambito rischia di diventare un consulente tecnico, e non è questo il nostro lavoro. Ciò che invece aiuta ad essere ingaggiati è un background in cui il cliente si possa riconoscere: se sa che anche tu sei stato ceo o dirigente si sentirà più capito».

Il coaching appartiene a quel gruppo di professioni non ancora regolamentate nel nostro Paese e lei ha una formazione psicologica. È necessaria?

«No, anzi, il rischio per gli psicologi è quello di trovare difficile mettersi di fronte al cliente senza farsi condizionare dalle proprie conoscenze».

Quanto sono consapevoli le grandi aziende italiane della vostra professionalità?

«Ormai non c’è più bisogno di spiegare niente: ci chiamano e capiscono la differenza tra chi è preparato e chi no. Veniamo utilizzati non solo per il management di livello top, ma sempre di più anche per i quadri intermedi». Quanti siete in Italia ed è una professione che ‘tira’?

«Siamo circa 800, considerando quelli che hanno le credenziali della ‘International Coach Federation’. In totale intorno ai 2mila. Sì, attualmente mancano i talenti, ma un coach bravo, che sia in grado di sedersi al tavolo di un amministratore delegato e dargli del tu, guadagna molto e non si costruisce in un giorno».

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