Roma, 16 gennaio 2022 - Non hanno la valigia di cartone in mano, ma quella dei ’minatori’ di bitcoin appare sempre più una vita da emigranti. Il fenomeno è stato ribattezzato dai media cinesi – ancora una volta, tutto parte da Pechino – come great mining migration, è in corso da quasi un anno ma è ben lungi dall’essere esaurito. Le ragioni dell’esodo sono diverse: la Cina – che fino al 2020 era il vero paradiso di questo discusso investimento – ha dato l’avvio al ’domino’ mettendo al bando le criptovalute, e spingendo i minatori informatici a trasferirsi negli Stati Uniti (in particolare in Texas) e in vari Paesi europei, soprattutto nell’Est. Ma ora è l’aumento dei costi dell’energia elettrica a mettere alle corde la produzione di questo denaro virtuale e a generare nuovi spostamenti. Un'attività energivora Il bitcoin e i suoi fratelli, infatti, vengono ’creati’ risolvendo formule matematiche attraverso potenti gruppi di computer in rete fra loro: un’attività altamente energivora, che consuma moltissimo. Quanto? Nell’ultimo report dell’Università di Cambridge, si legge che il mining globale di bitcoin consuma 125,96 terawattora all’anno di elettricità, più di Paesi come Norvegia (122,2 TWh), Argentina (121 TWh), Paesi Bassi (108,8 TWh) ed Emirati Arabi Uniti (113,20 TWh). Il caso del Kosovo L’ultimo caso è quello del piccolo Kosovo, che ha vietato l’estrazione di bitcoin a causa dei vasti e ripetuti blackout segnalati negli ultimi mesi dell’anno scorso. Avendo uno dei più bassi costi di energia d’Europa (grazie all’abbondanza di lignite, una tipologia economica di carbone), la piccola repubblica staccatasi dalla Serbia aveva attirato moltissimi minatori di bitcoin, in particolare nel nord del Paese. Ora, però, il governo kosovaro è stato costretto a spegnere la più grande centrale a carbone sul territorio e a importare energia dall’estero. Proprio nel momento di picco massimo dei ...
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