Ex Ilva, la leader Cisl accusa i politici: ostili al lavoro

Anna Maria Furlan avverte il governo: "Non c’è tempo per valutare altre cordate, qui esplode una bomba sociale che coinvolge 20mila famiglie"

Anna Maria Furlan e gli operai dell'ex Ilva

Anna Maria Furlan e gli operai dell'ex Ilva

Roma, 6 novembre 2019 - La bomba sociale dell’Ilva è scoppiata. Come si disinnesca ora? «Oggi la scelta è tra salvare lo stabilimento e il baratro – avvisa senza mezzi termini Anna Maria Furlan, leader della Cisl, dopo un’altra giornata di passione attorno alla vicenda sociale e industriale più drammatica della stagione –. La politica ha acceso questa miccia esplosiva, la politica ha il dovere ora di disinnescarla, con un emendamento o un decreto che ripristini lo scudo penale. Chi parla di altre soluzioni o altre cordate fa solo spot elettorali di pessimo gusto».

Qual è la posta in gioco? Quale il rischio che corre il Paese? «La chiusura dell’Ilva sarebbe un danno economico enorme per il Mezzogiorno, ma anche per gli stabilimenti di Genova in Liguria, di Novi Ligure e Racconigi in Piemonte, di Marghera in Veneto, e per tutta l’economia del Paese, se l’Ilva chiudesse i battenti, perché senza l’impianto pugliese si ferma tutta la produzione in Italia. Nessuno stabilimento potrebbe andare avanti senza la materia prima prodotta a Taranto. Parliamo di 20mila posti di lavoro a rischio, 20mila famiglie, comprese quelle dell’indotto. Il rischio è perdere la produzione dell’acciaio e di fermare il processo di risanamento ambientale. Sarebbe una nuova Bagnoli, dalle conseguenze ancora più gravi per l’economia del Paese».

Come si è potuti arrivare a questo punto? «Lo avevamo detto con chiarezza già alcuni mesi fa: ArcelorMittal andrà via senza le garanzie a suo tempo pattuite sulla tutela penale per gli effetti ambientali del piano industriale. Pacta servanda sunt , dicevano i latini. Ma sia il governo Conte I, sia il governo Conte II non hanno saputo garantire lo ‘scudo penale’, propiziando quello che può diventare un vero disastro industriale, sociale e ambientale. C’è, insomma, un clima politico ostile vero il lavoro e l’impresa. E questo clima può far naufragare il Paese».

Perché è necessario lo scudo legale per gli amministratori? «Il governo deve togliere ogni alibi ad ArcelorMittal. Solo ripristinando la tutela giuridica si può davvero capire se l’azienda cerca un pretesto per rompere i patti. Ilva è stata commissariata per anni e, così come erano protetti i commissari, anche l’azienda che è subentrata e che investe deve essere messa in condizione di operare. È un principio di buon senso. L’incompatibilità ambientale si può superare se si investe nelle nuove tecnologie tali da abbattere l’inquinamento. Questo prevedeva l’accordo con ArcelorMittal, con un investimento di 4 miliardi di euro, di cui buona parte per il risanamento ambientale».

Il ripristino dello scudo deve valere per l’Ilva o in generale? «Si può pensare anche a una norma più di sistema che possa servire per proteggere chi investe in Italia e deve avviare un piano di risanamento ambientale, ma l’urgenza ora è l’Ilva».

Come si possono garantire contemporaneamente lavoro e salute? «I gravi problemi ambientali dell’area di Taranto non possono risolversi con la chiusura degli impianti. Non è vero che non si possa produrre acciaio in maniera pulita, come tra l’altro avviene in altri Paesi europei. Questa è la sfida, se non si vuole buttare via un settore che vale miliardi. La politica non può piangere lacrime di coccodrillo e scaricare le colpe solo sull’azienda, il governo deve assumersi le sue responsabilità. Scelgano la strada più opportuna e rapida, decreto legge o emendamento».

Come considera la strada ipotizzata da qualcuno (Matteo Renzi) di una cordata alternativa? «Non possiamo ricominciare daccapo. Non c’è tempo. Si rischia comunque la chiusura degli stabilimenti, la perdita del lavoro, la fuga degli investitori. Non è una strada perseguibile».

Ma si può procedere a tentoni, sull’Ilva come su Alitalia? Dove è la politica industriale? «Sono anni che non si fa più politica industriale. Abbiamo perso pezzi importanti di produzione nelle telecomunicazioni, nella chimica, nella meccanica, nei trasporti, nell’agroalimentare. Ci sono 160 crisi aziendali aperte al Mise, a partire da Alitalia che giace senza più cassa in attesa di capire quale è la soluzione che il governo auspica. Il risultato è la crescita zero del Paese, ma se non c’è certezza di regole, nessuno verrà più ad investire in Italia. Siamo all’ultima spiaggia. Speriamo che il governo e le forze politiche battano dunque un colpo, mettendo da parte le divisioni e pensando solo a fare gli interessi del Paese».

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