La musica ribelle? È nata in cantina

Come nelle catacombe, si scendeva in questi luoghi per non irritare i genitori e non disturbare la nonna, quindi si armeggiava sulla radio sperando di captare l’ultimo singolo dei Rolling Stones

Vasco Rossi con Eugenio Finardi

Vasco Rossi con Eugenio Finardi

Formidabili quegli anni . E davvero formidabile fu l’impatto che ebbe, su un’intera generazione, la liberazione dell’etere, la scoperta della modulazione di frequenza, insomma l’improvvisa consapevolezza che il suono di una canzone non era più governato dal Potere, dal Sistema, da un misterioso e occulto Censore... In verità, la nascita delle radio libere (ma libere veramente, per citare Eugenio Finardi) era stata preceduta da un movimento carsico nel sottosuolo, dal borbottio che saliva dalle cantine, un gorgoglio che rimbalzava contro le pareti ammuffite che ospitavano damigiane e bottiglie.

Perché lì, in quei luoghi segreti, prima del 1975 si radunavano gli adepti della musica rock, pop, jazz, eccetera. In Italia c’era solo la Rai, che più in là della Hit Parade di Lelio Luttazzi e dei programmi audaci di Arbore e Boncompagni non andava. Medie erano le onde della radio e mediocre era l’approccio alla cultura musicale più innovativa. Inoltre, in quei tempi la distribuzione dei dischi, rigorosamente in vinile, non avveniva in contemporanea, per trovare l’ultimo album di Dylan dovevi aspettare mesi. Come reazione, negli anni Sessanta era nata la moda delle cantine. Si scendeva per non irritare i genitori e non disturbare la pennichella della nonna, quindi si armeggiava sull’apparecchio radiofonico. Sposta di qua, sistema di là, infine se il Dio del soul ti assisteva captavi Radio Lussemburgo e ti si apriva un mondo, ecco l’ultimo singolo dei Rolling Stones, attenzione, dopo vi faremo sentire un brano di una band emergente, i Pink Floyd, per caso li avete già sentiti nominare? E la chitarra di Jimi Hendrix, su, non vi dice forse qualcosa?

Formidabili, quegli anni . Ma non potevano durare e non durarono, perché un popolo non può vivere in eterno nelle catacombe, pardon, nelle cantine. Arrivò dunque il 1975, periodo turbolento e violento per un’Italia squassata da contraddizioni feroci. Ma si intuiva che una ansia di libertà doveva essere appagata, riguardasse i diritti civili o le forme più immediate di comunicazione. Sul potere della Radio, con la maiuscola, su come incise sui cambiamenti della società, talvolta anticipandoli e talvolta intercettandoli, talvolta decifrandoli e talvolta fallendo nella interpretazione, ecco, su potere e ruolo della Radio, in quella Italia, sono stati scritti volumi, in un delirio di tesi non sempre conciliabili. Ma, in chi c’era, in chi ha l’età per ricordare, la musica ribelle che sgorgava dalla modulazione di frequenza fu come un lampo in un cielo buio.

Finalmente eravamo liberi di ascoltare quello che ci pareva e quando ci pareva. Finalmente (anche se fu un fenomeno di breve durata) non eravamo più oppressi dalle esoteriche logiche dei “programmisti”. Per un po’, andò in onda di tutto. Senza freni e senza limiti. In un poetico prologo di carriere straordinarie, da una stazione di Zocca un certo Vasco Rossi e un certo Gaetano Curreri inondavano l’etere di note memorabili. Comprese quelle delle loro prime sperimentazioni.

La musica ribelle delle radio libere ci aprì le menti e spalancò i cuori. Con ovvie positive ripercussioni anche sulle cantine, finalmente restituite alla naturale dimensione di santuario dei vini. Non per caso in quella fase impazzano gli artistici rumori della PFM, delle Orme, del Banco. Non per caso là creatività di Lucio Battisti, anche lui reduce da frequentazioni nel sottoscala a cercare la frequenza di Radio Lussemburgo, raggiunge l’apice. Eravamo schiavi senza catene. Fu breve, fu bello. E chissà, magari non fu inutile. Forse.