Mercoledì 24 Aprile 2024

JFK, il presidente del sogno americano

Diede agli Usa l’ottimismo, combattè per i diritti civili. Nascondendo strategie e tradimenti

John Fitzgerald Kennedy con la moglie Jacqueline (Foto JFK Library)

John Fitzgerald Kennedy con la moglie Jacqueline (Foto JFK Library)

New York, 12 aprile 2019 - Prosegue a Bologna, a Palazzo Belloni, la mostra fotografica “The Kennedy Years”. Dedichiamo alla celebre dinastia statunitense una serie di articoli di approfondimento: dopo il primo di Cesare De Carlo sulle origini della famiglia, ecco il ritratto di JFK. 

di GIAMPAOLO PIOLI

Con internet forse avrebbe avuto tempi difficili. Troppi controlli, troppi gossip, troppa poca privacy, troppo libertino. Il suo mito, invece, come 35° presidente degli Stati Uniti è intatto e sempre avvolto dal fascino. A 55 anni dalla morte John Fitzgerald Kennedy, rimane l’icona più importante e irraggiungibile della «dinastia di Camelot». Il Capo della Casa Bianca più amato d’America. Nei suoi 34 mesi di presidenza, spezzati dal misterioso assassinio di Dallas nel 1963, JFK ha sempre mantenuto una popolarità al di sopra del 70%. Sapeva benissimo che, pur essendo un predestinato, un figlio del privilegio, arrivato ai successi politici grazie al potente e ricco padre, spregiudicato imprenditore e ambasciatore, la sua fortuna alla Casa Bianca sarebbe dipesa esclusivamente dalla capacità di connessione con la gente dopo la vittoria di misura alle presidenziali del 1960 contro Richard Nixon.   Con la sua bella moglie e la sua bella vita, “Jack” si muoveva come un’amatissima popstar. Riuscì a convincere l’America fin da subito che poteva continuare a sognare, sentirsi ottimista, comprare il frigorifero più grande, l’auto più lunga, e farsi portare il resto del mondo in casa dalla televisione. Stimolò l’orgoglio nazionale promettendo che avrebbe portato presto l’uomo sulla Luna. Trovò lo storico abbraccio nella frase: «Non chiedetevi cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa potete fare voi per il nostro Paese…». Chiarì che i suoi valori religiosi erano separati dalla politica. «Non sono il candidato cattolico alla presidenza degli Stati Uniti – disse – ma il candidato del partito democratico alla presidenza che si dà il caso sia un cattolico… Non parlo a nome della mia chiesa e la mia chiesa non parla per me… Nessuno ha mai chiesto a che religione appartenevo quando ero in guerra nel Sud Pacifico… I nemici dell’uomo sono la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra stessa…».   Attentissimo agli umori popolari, in un paese che faticava a uscire dagli odi razziali, appoggiò prima con un certo timore poi con maggior determinazione il movimento dei diritti civili. Cambiò in pochi mesi la struttura decisionale della Casa Bianca concepita militarmente dal generale Eisenhower per renderla più semplice e spedita verso la figura del presidente, unica immagine pubblica del paese. Si fidava solo della famiglia e del clan. Non trovò ostacoli nemmeno quando scelse Robert come ministro della giustizia e l’altro fratello Ted che prese il suo posto nel potente ruolo di senatore del Massachusetts. Il loro era un trio di potere inseparabile. Alla Casa Bianca e ai party. Ma non sarebbe mai diventato l’immortale JFK se non avesse avuto Jacqueline Bouvier al suo fianco con quello straordinario stile da first lady, ma soprattutto come discreta e triste protettrice dei suoi numerosi e vistosi tradimenti e segreti sulla salute.   Nella mostra fotografica di Palazzo Belloni a Bologna, i sorrisi di “Jack” alle belle donne e ai due figli, sono più decifrabili di tante analisi storiche. Presentano la contagiosa e affascinante America dei Kennedy, di un presidente di 43 anni, temprato ad Harvard, vincitore di un Pulitzer, senatore già da qualche anno, che va a vela a Martha’s Vineyard, gioca a tennis coi nipoti e guida il più grande paese del mondo imbottendosi di barbiturici e droghe per combattere i soffocanti e sempre più gravi dolori alla schiena. Gli Stati Uniti pur con un direttore dell’Fbi inquietante e ostile come Edgard Hoover, che continuava a dare la caccia a intellettuali e “comunisti”, si sono trovati di fronte un uomo affascinante, abbronzato e sorridente, pieno di calcolata nonchalance, intelligente, colto, politicamente acuto e pragmatico, che, dopo essere stato umiliato da Nikita Krusciov nel 1961 a Vienna, nel summit d’esordio, tenne testa ai russi ed evitò un confronto atomico durante la crisi dei missili di Cuba per iniziare i negoziati sul disarmo. E sotto il muro della vergogna e della guerra fredda per rimarcare la mancanza di libertà, andò a gridare dalla parte Ovest della città: «Siamo tutti berlinesi…».   ronia abrasiva e umorismo erano riservati ad amici e avversari. «In questo viaggio verrò ricordato come l’accompagnatore di Jackie Kennedy a Parigi» disse incontrando il generale De Gaulle. Poco convinto dell’assalto alla Baia dei Porci, per la quale non autorizzò la copertura aerea, non fece troppo per fermare i tentativi della Cia e della mafia di assassinare Fidel Castro. Fondò con un atto presidenziale il “Peace Corps”, i volontari spediti a migliaia in decine di paesi in via di sviluppo per realizzare programmi educativi, sanitari e di infrastrutture finanziate dal governo Usa. Servirono a espandere il “modello kennediano” e ottenere un controllo soft di quelle realtà soprattutto centro americane spesso guidate da militari o dittatori. Non fu così per il Vietnam perché arrivarono prima le pallottole di Oswald.  Anche nei pochi mesi di presidenza però “il marchio Camelot” di quella che veniva ormai considerata la famiglia reale americana si era impresso su tutto il paese. La torcia di JFK doveva passare a Robert, ma quattro anni dopo venne assassinato anche lui senza aver mai potuto mettere piede alla Casa Bianca, rendendo la maledizione inarrestabile. (2- continua)