Mercoledì 24 Aprile 2024

Viaggio verso il Mundial, un esodo Quando la Spagna ci aprì la frontiera

A 40 anni dalla finale il racconto del nostro cronista presente al Santiago Bernabeu con 50 mila italiani "In quattro su una 127 per 1.500 chilometri. Alla dogana i militari salutavano la marea tricolore sull’attenti"

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di Riccardo

Jannello

Non ho mai rimpianto di non avere ascoltato in diretta tv Nando Martellini che urlava ‘campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo’: io e i miei amici la stessa triplice e lapidaria frase l’abbiamo spontaneamente urlata al Santiago Bernabeu alle 21,50 di quaranta anni fa, non appena il signor Coelho aveva strappato dai piedi di Causio il pallone issandolo al cielo e decretando il verdetto: Italia-Germania 3-1. E chi la dimenticherà mai quella partita, soprattutto dopo i 1.567 chilometri percorsi su una Fiat 127 verde cupo: invece di un calvario fu una delle gioie più belle della nostra vita. Eravamo partiti alle 21.15 del 9 luglio, venerdì, da Massa: io, Giovancarlo (il padrone dell’auto), Mariano e Massimo, che aveva portato i sacchi a pelo. Non avevamo i biglietti, ma non saremmo rimasti fuori dallo stadio: era il mantra quando, mentre il tramonto dardeggiava le Apuane, entrammo sulla A12. Col passare dei chilometri la coda aumentava: il popolo italiano – saremo poi 50mila – era in marcia verso la gloria (all’inferno nessuno credeva). Negli autogrill la domanda era una sola: "Avete i biglietti?". La risposta altrettanto unica: "No, ma nessuno ci fermerà". Il sogno italico è più forte di tutto.

In carovana attraversammo la Francia e all’alba, alla frontiera autostradale di Le Perthus, il primo miracolo spagnolo in un momento in cui di Schengen non si parlava: le sbarre erano alzate e a ognuna di esse era legato un vessillo tricolore. I doganieri di re Juan Carlos, in divisa e sull’attenti, salutavano la marea bianca rossa e verde che invadeva in pace la Spagna. Le lacrime in 100mila occhi: salutammo sventolando le bandiere, non potevamo perdere. Durante il tragitto venimmo a sapere che in un’agenzia di viaggio di Madrid si trovavano ancora biglietti.

L’obiettivo era giungere per primi in quel luogo. Vi arrivammo verso le 17, dopo una sosta per il pranzo: salsicce alla brace e birra, non proprio il massimo per i 40 gradi di Saragozza. Ci accolse un italiano che viveva là. Dopo i salamelecchi di rito ci mostrò la mappa dello stadio: scartammo le curve perché dopo 1.567 chilometri vedere male la partita sarebbe stato un insulo, e la tribuna centale, troppo cara. Rimaneva la Maratona: i tagliandi costavano circa 7mila lire, ma non facemmo storie quando ce ne chiese 50mila a testa. Eravamo stanchi e il budget era aperto per qualcosa che non accadeva tutti i giorni. Pagammo il bagarino e tirammo il nostro sospiro di sollievo.

Scoprimmo, fuori dal Bernabeu, che le casse erano in realtà aperte, ma le code colossali: non avemmo rimpianti. Rinunciammo anche ai sacchi a pelo perché trovammo una pensioncina a un prezzo ragionevole. Non era granché, ma dormimmo come ghiri. L’11 luglio ci accolse con un sole pieno e caldo. Davanti allo stadio aspettammo le 18 per scalare le rampe del Santiago Bernabeu e trovare posto in Maratona, davanti alla tribuna centrale all’altezza in cui si sarebbero seduti Pertini, Juan Carlos e il gotha del calcio. Quel che accadde dalle 20 in poi è noto: superammo lo choc del rigore sbagliato da Cabrini con qualche vaffa, ma al gol di Pablito Rossi capimmo prima del presidente Pertini che non ci avrebbero ripreso. Tardelli fu la nostra certezza e quasi neppure ci accorgemmo dei gol di Spillo Altobelli e di Breitner.

Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo: i 1.567 chilometri del ritorno erano acqua fresca. Il Paseo de la Castellana ospitò partite di calcio, cortei, bevute di birra prima di ritrovarci tutti sulla strada per casa: un serpentone a clacson spianato. All’arrivo a Marina di Massa, lunedì alle 21, ci aspettavano altri festeggiamenti: in fondo avevamo vinto anche noi.