Giovedì 25 Aprile 2024

Uno strano caso di giustizia e di coscienza

Il figlio che uccise il padre

Qualche anno fa, anzi molti anni fa, quando facevo il cronista di giudiziaria a Milano, un giorno, durante la pausa pranzo, andai al bar del tribunale a mangiare un panino con un noto magistrato. Ricordo che era un panino con il prosciutto cotto e le patate lesse: immangiabile. Ma ricordo soprattutto quel che mi confidò quel magistrato: "Oggi", mi disse, "ho ringraziato Iddio per essere un pubblico ministero e non un membro del collegio giudicante. Ho infatti dovuto chiedere un ergastolo, ma non sono affatto convinto che l’imputato sia colpevole. Se sarà condannato, non l’avrò quindi sulla coscienza io, ma la Corte".

Taccio il nome di quel magistrato, diventato poi famosissimo: così come si dice il peccato ma non il peccatore, si dice la requisitoria ma non il pubblico ministero. L’episodio mi è comunque tornato in mente ieri, quando ho letto le parole pronunziate dal pm al processo contro un ragazzo che un anno e mezzo fa uccise a coltellate il padre: un padre che più e più volte aveva maltrattato e picchiato la moglie, cioè la madre del ragazzo. "Sono costretto", ha detto ieri il pm al termine della sua requisitoria, "a chiedere quattrodici anni di reclusione, applicando la riduzione dovuta alla seminfermità di mente. Ma invito la Corte a tenere presente anche un altro elemento: la provocazione subita". Secondo il pm si trattò di omicidio volontario, compiuto con trentaquattro coltellate sferrate con sei coltelli diversi, e non si può invocare la legittima difesa putativa, cioè non si può dire che il figlio abbia ucciso per difendere la madre da un pericolo di morte, perché quel pericolo non c’era. C’era però un pregresso di botte, di violenza, di paura, c’era "una situazione contaminata dall’angoscia". E quindi il pm - rappresentando la pubblica accusa - chiede la condanna a una pena severa ma, così come quel magistrato milanese di tanti anni fa, spera che la Corte sia più clemente di lui.

Verrebbe, istintivamente, da fare una riflessione di questo tipo: se i magistrati della Corte giudicante hanno gli strumenti giuridici per attenuare la pena, perché non possono averla anche i pubblici ministeri? Forse perché un pm “deve“ sempre, per forza, chiedere la condanna? Non lo so. E non mi permetto di criticare i magistrati, il cui mestiere è difficile. Disporre della vita degli altri è un compito gravoso e una responsabilità terribile: ti mette quasi sullo stesso piano del Padreterno. Voglio solo dire che la giustizia umana è purtroppo limitata per sua natura, e sbaglia chi non cerca di conciliarla con la coscienza: con la propria e con quella altrui, anche di chi si trova - magari per i casi della vita - dalla parte sbagliata.