Martedì 23 Aprile 2024

Una madre e il dolore senza volto

Viviana

Ponchia

Sopravvivere alla morte di chi si ama è un esercizio spirituale ma anche un esercizio estetico. Jung raccontava che dopo la scomparsa della moglie provava una fitta al cuore quando sfiorava accidentalmente qualsiasi cianfrusaglia che le era appartenuta. Io ho impiegato un anno a svuotare l’armadio di mia madre. E un amico rimasto vedevo mi ha confessato di avere distrutto l’album del matrimonio perché vedersi felice con lei era diventato un paradosso insopportabile. Il dolore ci rende visionari, primitivi, intransigenti. Ci fa riconoscere l’anima di chi non c’è più nei pezzi di materia e costruire santuari non solo mentali, oppure ci porta a distruggere tutto. Mi attacco al tuo orologio, alla tua penna, ai capelli che hai lasciato sulla spazzola. O invece cancello ogni traccia di te, impedisco agli altri anche solo di pronunciare il tuo nome. La strategia, comunque fallimentare, è soffrire un po’ meno. Fare come se l’altro fosse sempre lì. O fingere che non ci sia mai stato.

L’appello disperato della mamma di Samuele a non pubblicare foto e video di suo figlio è senza dubbio un tentativo di fermare i barbari, ma non solo. Teme lo sciacallaggio della sventura, tentazione antica che la tecnologia ha reso selvaggia e incontrollabile. Sa che il pellegrinaggio dei curiosi nel punto in cui si è schiantato il suo bambino, l’anonima e anche benevola processione del peluche, diventeranno pornografia. Ma prima di tutto, giù le mani dalle foto. Perché sono sue. Sue, tutte quante, dalla nascita all’ultima vacanza felice. Da conservare ossessivamente o bruciare a seconda di come si sentirà domani. Sue e non di chi piange Samuele dopo avere riso per un balletto su Tik Tok. Amore e strazio senza condivisioni. Suo il quadrato di marciapiede da non calpestare per il resto dei giorni. E la cameretta qualche piano sopra, dove sono in agguato giocattoli arroventati e ricordi ai quali dichiarare guerra prima di provare a fare la pace.