Un linguaggio astruso fuori dalla realtà

Francesco

Mercadante

era una volta Sabino Cassese (gode tuttora di buona salute), il giurista che, da ministro della Funzione Pubblica, denunciò l’incapacità di comunicare della Pubblica Amministrazione. Lo fece con eleganza istituzionale. Nel Codice di Stile, si legge "che il linguaggio è utilizzato più nell’ottica della legittimità formale degli atti che in quella, sostanziale, della comprensibilità del messaggio". Non sempre però il tempo è un buon alleato, cosicché, adesso, il simbolico ’c’era una volta’ diventa decisivo. È arrivata la pandemia e con essa un’asfissiante sovrabbondanza di norme:

i cittadini ne sembrano narcotizzati.

Il guaio è che alla quantità di formulette da memorizzare si aggiungono le astruserie linguistiche del testo giuridico: parole e frasi ermetiche, fumose, a causa delle quali, spesso, viene meno la relazione tra emittente e destinatario. Il cittadino, anzitutto, deve misurarsi con

la complessità degli acronimi:

Dl, Dpcm, Opcm et cetera.

In secondo luogo, deve interrogarsi, forse per la prima volta nella vita, sul significato di “congiunto”; poi, deve associarlo col “ricongiungimento” e stare attento alla differenza tra “partner”, “fidanzati” e “coppie stabili” e, da ultimo, se gli restano voglia ed energie, deve capire che un certo servizio è disponibile sulla base di un iperbolico “di cui all’art. 101 del codice tale di cui al Dlgs del 22 gennaio 2004, n. 42” (Dpcm 14 gen 2021, 10.r). Se è vero, com’è vero, che il linguaggio crea o modifica la realtà, qual è la realtà?