Martedì 23 Aprile 2024

Un campione non si giudica dalle vittorie

Matteo

Massi

Sembrava una extraterrestre della pedana, una in grado di sfidare leggi di gravità, giri vorticosi e vertiginosi e invece era solo umana. Come tutti noi. Simone Biles si è fermata sul più bello, alle Olimpiadi di Tokyo che sembravano tagliate su misure per lei, utili a rinverdire la bacheca di medaglie e aggiornare i libri di storia della ginnastica artistica di nuovi record.

Ha detto stop, mostrando la discesa inesorabile verso i suoi abissi (non pochi), quando noi avevamo avuto la fortuna di ammirare solo le sue ascese.

E l’altro giorno che il Time ha deciso di dedicarle la copertina come miglior atleta dell’anno, nell’anno in cui i risultati sportivi sono mancati, in cui ha fallito l’appuntamento più importante, la scelta non è sembrata un risarcimento. Ma un legittimo premio. A chi non si nasconde, anche quando il profilo sembra tutto teso verso la gloria e invece finisce col battere la faccia a terra.

Ci siamo fatti l’idea che il nostro campione o la nostra campionessa, proprio perché sono riusciti ad affermarsi sulla scena pubblica, siano invincibili. Che siano costruiti come degli automi per ripetere all’infinito i successi e per migliorarli anche. C’è sfuggito invece, che sono umani. Normalmente umani, in preda alle crisi, ai dubbi, come tutti noi. Simone non ha alle spalle una storia facile e il passo successivo, dopo quello di Tokyo in cui ha ammesso di soffrire di twisties (vuoti cognitivi che le facevano perdere il senso dello spazio, un contrappasso per chi vive di evoluzioni), è stato quello di presentarsi a Capitol Hill. Quel giorno Simone, in audizione, ha raccontato degli abusi sessuali subiti dall’ex medico della nazionale di ginnastica artistica americana e anche le negligenze dell’Fbi nell’indagine. Il coraggio e la forza non si misurano solo dalle vittorie e dalle medaglie finite in bacheca. E anche per questo Simone merita quella copertina. Una lezione per tutti e tutte.