Un soldato russo tra le macerie del teatro di Mariupol

Un anno di guerra. Centinaia di migliaia di morti, da una parte e dall’altra. Un aggressore e un aggredito. Che bilancio è possibile trarre a quasi 365 giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina? Proviamo a capirlo con Dario Fabbri, analista geopolitico e direttore della rivista Domino. Che tipo di guerra è? A tratti sembra moderna e tecnologica, a tratti novecentesca con le trincee e gli assedi. "È soprattutto una guerra “classica“, ma non manca una parte ibrida, compreso l’uso di satelliti. Il grosso comunque è stata l’invasione di terra, con il coinvolgimento della fanteria, e nel sud dell’Ucraina i russi hanno scavato letteralmente le trincee, come a inizio Novecento. I bombardamenti non sono stati a tappeto, ma terra-terra, con la distruzione di intere città". Sembra ormai evidente che Putin non potrà vincere. Ma “vittoria ucraina“ che cosa vuol dire? Quale potrà essere il punto di caduta? "Ecco, appunto bisogna stabilire che cosa i contendenti possano definire vittoria. Il Cremlino è pronto a raccontare ai russi come vittoria la conquista dell’intero Donbass, senza escludere poi una ripresa delle ostilità in futuro. Per Kiev invece è oggettivamente difficile la ripresa integrale dei territori occupati. Quindi il punto di caduta corrisponde a doversi accontentare di qualcosa, non è chiaro di che cosa". Quando si è capito che la Russia non avrebbe vinto? C’è stato un punto di svolta? "Ci sono stati due momenti chiave. Agli inizi di marzo 2022, quando le forze d’invasione, disorganizzate e mal equipaggiate, non furono accolte benevolmente neanche dai russofoni. E poi è stato decisivo il sostegno massiccio assicurato dagli Stati Uniti a Kiev, a meno di una settimana dall’inizio del conflitto". Impegno che gli Usa rinnovano con la visita del presidente Joe Biden a Kiev. Dall’altra parte la Cina continua a dialogare con Mosca. Anche dopo la guerra tornerà uno schema di blocchi contrapposti? "È uno scenario più che possibile. La differenza è che da una parte ci sarebbero gli Usa con l’Occidente, o quantomeno il blocco dell’Alleanza atlantica. Dall’altra parte invece i russi si consegnano alle fauci del Dragone. Con loro resterebbero solo l’Iran e la Corea del Nord, che come tutti i Paesi con l’atomica sono una storia a parte". Che ruolo ha avuto la diplomazia in questo anno di guerra? "Piccolo. Alcuni tentativi ci sono stati, tutti naturalmente interessati come succede sempre, dalla Turchia a Israele. E poi la mediazione finta della Cina. Finora non c’è mai stato un “ricatto“ cinese nei confronti dell’amico-nemico, cioè per esempio la minaccia di non comprare più il gas russo. Questo potrebbe succedere forse solo se Mosca dovesse avviarsi a perdere malamente. Però Pechino ha bisogno che la Russia stia in piedi, altrimenti sarebbe da sola a fronteggiare l’Occidente, con cui peraltro fa i veri affari commerciali". Dopo lo scoppio del conflitto si è detto "è tornata la guerra alle porte dell’Europa". È una guerra europea o mondiale? E ha prodotto un qualche shock culturale? "Come capita spesso, ci accorgiamo di qualcosa quando i suoi effetti ricadono su di noi. Immediatamente si è capito che nulla sarebbe stato più come prima. Ora c’è una certa normalità. Anche i flussi migratori hanno toccato soprattutto i Paesi limitrofi all’Ucraina. Per quanto riguarda la guerra europea, già trent’anni fu sottovalutato il conflitto nei Balcani, i cui effetti si vedono tuttora. Non si è prodotta una rivoluzione culturale, ma un campanello d’allarme sì".

Cronaca

Un anno di guerra. Centinaia di migliaia di morti, da una parte e dall’altra. Un aggressore e un aggredito. Che bilancio è possibile trarre a quasi 365 giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina? Proviamo a capirlo con Dario Fabbri, analista geopolitico e direttore della rivista Domino. 
Che tipo di guerra è? A tratti sembra moderna e tecnologica, a tratti novecentesca con le trincee e gli assedi. 
"È soprattutto una guerra “classica“, ma non manca una parte ibrida, compreso l’uso di satelliti. Il grosso comunque è stata l’invasione di terra, con il coinvolgimento della fanteria, e nel sud dell’Ucraina i russi hanno scavato letteralmente le trincee, come a inizio Novecento. I bombardamenti non sono stati a tappeto, ma terra-terra, con la distruzione di intere città". 
Sembra ormai evidente che Putin non potrà vincere. Ma “vittoria ucraina“ che cosa vuol dire? Quale potrà essere il punto di caduta? 
"Ecco, appunto bisogna stabilire che cosa i contendenti possano definire vittoria. Il Cremlino è pronto a raccontare ai russi come vittoria la conquista dell’intero Donbass, senza escludere poi una ripresa delle ostilità in futuro. Per Kiev invece è oggettivamente difficile la ripresa integrale dei territori occupati. Quindi il punto di caduta corrisponde a doversi accontentare di qualcosa, non è chiaro di che cosa". 
Quando si è capito che la Russia non avrebbe vinto? C’è stato un punto di svolta? 
"Ci sono stati due momenti chiave. Agli inizi di marzo 2022, quando le forze d’invasione, disorganizzate e mal equipaggiate, non furono accolte benevolmente neanche dai russofoni. E poi è stato decisivo il sostegno massiccio assicurato dagli Stati Uniti a Kiev, a meno di una settimana dall’inizio del conflitto". 
Impegno che gli Usa rinnovano con la visita del presidente Joe Biden a Kiev. Dall’altra parte la Cina continua a dialogare con Mosca. Anche dopo la guerra tornerà uno schema di blocchi contrapposti? 
"È uno scenario più che possibile. La differenza è che da una parte ci sarebbero gli Usa con l’Occidente, o quantomeno il blocco dell’Alleanza atlantica. Dall’altra parte invece i russi si consegnano alle fauci del Dragone. Con loro resterebbero solo l’Iran e la Corea del Nord, che come tutti i Paesi con l’atomica sono una storia a parte". 
Che ruolo ha avuto la diplomazia in questo anno di guerra? 
"Piccolo. Alcuni tentativi ci sono stati, tutti naturalmente interessati come succede sempre, dalla Turchia a Israele. E poi la mediazione finta della Cina. Finora non c’è mai stato un “ricatto“ cinese nei confronti dell’amico-nemico, cioè per esempio la minaccia di non comprare più il gas russo. Questo potrebbe succedere forse solo se Mosca dovesse avviarsi a perdere malamente. Però Pechino ha bisogno che la Russia stia in piedi, altrimenti sarebbe da sola a fronteggiare l’Occidente, con cui peraltro fa i veri affari commerciali". 
Dopo lo scoppio del conflitto si è detto "è tornata la guerra alle porte dell’Europa". È una guerra europea o mondiale? E ha prodotto un qualche shock culturale? 
"Come capita spesso, ci accorgiamo di qualcosa quando i suoi effetti ricadono su di noi. Immediatamente si è capito che nulla sarebbe stato più come prima. Ora c’è una certa normalità. Anche i flussi migratori hanno toccato soprattutto i Paesi limitrofi all’Ucraina. Per quanto riguarda la guerra europea, già trent’anni fu sottovalutato il conflitto nei Balcani, i cui effetti si vedono tuttora. Non si è prodotta una rivoluzione culturale, ma un campanello d’allarme sì".

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