Venerdì 19 Aprile 2024

Un altro comico alla ribalta politica Kitano, il fustigatore dei giapponesi

Il regista Leone d’oro a Venezia nel ’97 pensa di scendere in campo: è famoso per gli sketch anti establishment

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di Benedetto Colli

Dopo Beppe Grillo e Volodymyr Zelensky, secondo un sondaggio, un altro comico è pronto a interpretare il ruolo di protagonista della scena politica del suo paese. È il regista giapponese Takeshi Kitano che, a 25 anni dal Leone d’oro vinto a Venezia con Hana-bi, ha da poco ricevuto il Gelso d’oro alla carriera al Far East Film Festival di Udine. Certo, definirlo "regista" è riduttivo: Kitano, classe 1947, è anche sceneggiatore, attore, scrittore, giornalista, pittore, ballerino di tip tap, presentatore radiofonico e televisivo e, stando appunto a un sondaggio, l’uomo che i giapponesi vorrebbero come premier.

Ma chi è veramente Takeshi Kitano? Uno degli artisti più talentuosi e originali degli ultimi 50 anni o un emerito idiota?

Kitano è un bambino povero. Figlio di un imbianchino alcolizzato, cresce in un quartiere malfamato di Tokyo passando l’infanzia ad ammirare giocatori di baseball e membri della yakuza, la mafia nipponica. Ovviamente, da quelle parti i secondi sono molto più numerosi dei primi. Studente scioperato con velleità da cabarettista, affronta una lunga gavetta nei locali di spogliarello prima di approdare in tv negli anni Settanta.

Kitano è il comico più famoso del Paese. Da oltre quarant’anni, attacca con oscenità e furore "quegli stronzi di giapponesi". La buona società ne resta scioccata, ma il grande pubblico impazzisce per la libertà e la strafottenza con cui travolge convenzioni e ipocrisie.

Kitano è un teppista. Nel 1986, la rivista Friday pubblica le prove di una sua relazione extraconiugale. Lo stesso giorno, attorniato dai suoi fan, il comico irrompe nella sede, la devasta e ne malmena i redattori, definendo la sua azione "una burla".

Kitano è un poliziotto violento. Quando nel 1989 gli viene offerta la prima regia cinematografica, stravolge un poliziesco convenzionale in qualcosa di mai visto prima: dialoghi ridotti al minimo, recitazione essenziale, sequenze di stasi interminabili spezzate da imprevedibili scoppi di violenza.

Il film è Violent Cop, una dichiarazione di guerra al suo pubblico: immaginate Checco Zalone che interpreta la parte di un poliziotto brutale e nichilista che va incontro alla morte, coerente alla sua idea arbitraria di giustizia.

Kitano è un esistenzialista. Il successo internazionale arriva nel 1993 con il capolavoro Sonatine, storia di uno yakuza tradito dal suo boss e inviato in missione suicida che, invece di organizzare la vendetta, improvvisa giochi sulla spiaggia con i suoi uomini: baseball, sumo, buche nella sabbia, in un’escalation irresistibile che degenera nella roulette russa.

La filosofia di Kitano è dolce e spietata: la vita è una via ineluttabile che porta alla morte e all’uomo non resta che giocare come un bambino, in attesa dell’inevitabile. Il regista filma, con affetto e ironia, un branco di cani rabbiosi dirigersi apaticamente verso la fine con l’eroismo sciocco dei mocciosi, sotto lo sguardo di una natura meravigliosa e indifferente.

Kitano è un poeta. Il già citato Hana-bi, in cui interpreta un poliziotto che rapina una banca per regalare alla moglie, malata terminale, un ultimo viaggio insieme, conferma la sua abilità nel filmare l’amore, l’amicizia e il tragico dell’esistenza con una sincerità impietosa e partecipe. È diventato uno dei più grandi registi viventi. Ma all’improvviso qualcosa si spezza: torna a galla il buffone osceno e violento pronto a un’altra delle sue "burle".

Kitano è un aspirante suicida. Tra il 2005 e il 2008, firma una "trilogia del suicidio artistico": Takeshis’, Glory to the Filmmaker! e Achille e la tartaruga. Tre opere così autoreferenziali e volutamente incomprensibili da far piazza pulita del suo cinema passato. Il giovane arrabbiato che distrugge redazioni è tornato.

Ma chi è dunque Takeshi Kitano? È l’artista più geniale e selvaggio del Giappone del dopoguerra. È uno yakuza ad honorem. È un ragazzino che imbandisce una tavola sontuosa solo per il brivido di sfilarne di colpo la tovaglia. È una natura dai due abissi, in grado di rappresentare con la stessa grazia una sparatoria e un fiore che sboccia. È uno di quei grandi maestri zen che, dopo un lungo addestramento, giungono a osservare con spietata lucidità la vita e la morte nella loro essenza.

E con distacco e un sorriso sul viso, gettano via tutto ciò che hanno appreso per scendere in strada e ricominciare a giocare, come dei bambini. E, in definitiva, no: non è un idiota.