Malore Eriksen: umanità e forza, la lezione di Kjaer. Così si comporta un vero Capitano

Ha subito soccorso Eriksen, poi organizzato il cordone e consolato la moglie: un leader nel momento del bisogno

Kjaer consola in campo la moglie di Eriksen

Kjaer consola in campo la moglie di Eriksen

Ci vorrebbe la penna di Walt Whitman ("Capitano! O mio capitano!") per celebrare la figura di Simon Kjaer. Si proverà qui, più indegnamente, a raccontare le gesta di un calciatore che fino a due giorni fa era uno dei tanti, uno che non passerà alla storia come Messi o Ibrahimovic, e che da sabato è celebrato da tutti, indipendentemente dalla propria squadra del cuore. Si badi bene, qui non si tratta di calcio, ma di vita.

Simon Kjaer è in sintesi l’amico che tutti vorremmo avere al nostro fianco, nel momento della tragedia. È l’uomo che sa prendere la decisione giusta, ha sangue freddo, umanità e empatia. È un vero primus inter pares, è il Capitano, e infatti nella nazionale danese lo è per davvero.

Riguardate le immagini che hanno fatto trattenere il fiato sospeso per il destino di Christian Eriksen, se ne avete la forza. Il campione della Danimarca e dell’Inter piomba a terra, privo di sensi. Kjaer è lontano, arriva di corsa dalla difesa. Caccia via un compagno, perché sa cosa bisogna fare immediatamente: spostare la lingua del compagno e liberare le vie aeree. Kjaer è lucido, quando la disperazione appare scontata. Rimane accanto all’amico mentre i medici iniziano a praticargli i primi soccorsi. Anzi, c’è un attimo in cui il dottore gli chiede di farsi da parte. Lì, mentre i compagni si aggirano disperati, Kjaer fa un gesto di una tenerezza infinita. Mette una mano sulla spalla di Eriksen. Come a dire ‘non ti lascio qui da solo, sono al tuo fianco in questa battaglia. Vada come vada’.

Quando i giocatori si dispongono in cerchio per non far trasformare la scena in un macabro spettacolo, c’è quest’altra immagine che è l’emblema di cosa significa essere un condottiero: i compagni che si girano di spalle, chi in lacrime, chi in preghiera, e uno di loro, il Capitano, che guarda Eriksen. È l’unico che non si volterà mai. Guarda lui, a nome di tutta la squadra. E a nome di tutti, si accolla la parte forse più dolorosa, quella di abbracciare Sabrina, la moglie di Eriksen, che è scesa in campo in preda alla disperazione. La stringe, la avvicina al petto, le sussurra parole che rimarranno per sempre loro, e solo allora, Sabrina, forse un pochino rassicurata, gli mette una mano sulla schiena.

Io non lo so quanti ‘capitani’ conosciate voi, in grado di incarnare davvero i valori di umanità, forza e coraggio necessari nel momento del bisogno. Siamo abituati ad associare, nello sport come in lavoro o in politica, il ruolo del leader al concetto di privilegio. Il capo sul posto di lavoro è quello che spesso confonde l’autorevolezza con l’autoritarismo, il leader di partito è quello che talvolta pretende solo fedeltà assoluta in cambio di un posto al sole e una qualche poltrona. E il capitano nel mondo del calcio, almeno fino a ieri, era il campione in grado di fare un gol o la parata decisiva, quello che in spogliatoio fa la voce grossa, e magari serve per andare dal presidente a contrattare un premio partita per tutti.

Kjaer ha ribaltato in pochi minuti questo paradigma, riportandolo al senso vero delle priorità: il capitano è quello che si mette al servizio della squadra e dei compagni in difficoltà. È il numero uno non perché è bizzoso ma perché dà l’esempio, è la persona su cui si può contare, su un calcio d’angolo o quando la vita ti si rivolta contro. E che poi, quando la partita riprende, esce dal campo dopo pochi minuti, perché forse qualcosa gli si è rotto dentro. Perché un vero capitano sa essere forte per gli altri, e magari fragile per se stesso. Sì, ci vorrebbe Walt Whitman per celebrare degnamente Kjaer. Dargli invece la fascia di capitano anche al Milan ora è un dovere morale.