La lotta tra i governi e gli sprechi, veri e presunti, nella spesa pubblica ha qualcosa di epico e, insieme, donchisciottesco. Un po’ come quando si evoca il contrasto all’evasione fiscale come fonte di tutte le risorse mancanti. Due battaglie e due voci di bilancio che accomunano, sia pure con differenti accenti, destra e sinistra quando si approssima il tempo delle manovre di finanza pubblica.
Non sfugge all’evocazione dei tagli alla spesa cosiddetta improduttiva (come è stata definita in altri periodi) anche Giorgia Meloni. E, vero, ci mette anche un’esplicita connotazione "politica" laddove fa riferimento all’eliminazione di misure non coerenti o non congeniali all’impostazione del suo governo e della sua maggioranza. Ma tant’è. Al dunque, i termini di fondo della partita non cambiano.
Intendiamoci, gli sprechi nella spesa pubblica e nella gestione dei servizi pubblici ci sono: e anche in misura significativa. Ma delle due, l’una. O c’è modo, tempo e metodo per individuarli e intervenire chirurgicamente o, per fare in fretta e in condizioni di emergenza, si rischia di tagliare indiscriminatamente, colpendo soprattutto le fasce più deboli o in maniera non equilibrata. La prima strada, percorsa da molti autorevoli commissari alla spending review, non ha portato a risultati apprezzabili. La seconda via, seguita soprattutto dai governi tecnici, ha finito per ottenere sicuramente consistenti risparmi, ma con risvolti sociali rilevantissimi.
Rimane, è vero, una terza via: è quella dei grandi proclami anti-sprechi e dei finti tagli, previsti solo per far quadrare i conti. È tipica degli esecutivi politici o di tanti di essi. Risponde più a logiche di propaganda che di sostanza. Ma, in fondo, in assenza di un lavoro appropriato di ricerca degli sprechi veri, è la più adeguata a produrre meno danni collaterali. E in tempi complicati e inquieti non è detto che sia un male.