Marketing selvaggio, quanto valgono i nostri dati

Un numero di cellulare ha un valore di 10 centesimi. E attenti alle app che tracciano le nostre abitudini. Business da 106 miliardi

Una scena dal film "Tutta la vita davanti", ambientato in un call center

Una scena dal film "Tutta la vita davanti", ambientato in un call center

Milano, 16 gennaio 2020 - Dalla mattina, appena svegli, quando ci si informa sul meteo alla spesa con la carta fedeltà senza dimenticare la strada tracciata dai Gps, i profili sui social network, l’e-commerce, le operazioni finanziarie, rilasciamo una marea di dati al Grande Fratello di Internet. E se c’è chi pensa di essere persino ascoltato dallo smartphone o dalle assistenti vocali, è lo stesso Garante uscente della Privacy, Antonello Soro, ad aver ricordato qualche giorno fa come si calcoli che il numero delle app in circolazione che tracciano le abitudini degli utenti, compresa la posizione, siano circa ottanta. Ottanta per ogni persona che utilizza uno smartphone nel mondo.

Del resto, nell’era digitale, la merce più preziosa per arricchirsi sono i dati dei consumatori. Il nuovo oro di un business che, solo per prodotti e servizi disegnati sui big data dovrebbero muovere quest’anno, secondo la Commissione europea, un giro d’affari di 106 miliardi. Negli Stati Uniti hanno calcolato che il valore di mercato di ogni singolo utente Internet sfiori i 290 dollari (260 euro). E un numero di telefono (in particolare quello dei cellulari) a disposizione del telemarketing e in generale di chi vende bene e servizi varrebbe in Italia circa 10 centesimi. Se in tema di industria dei dati – e quindi della pubblicità sullo smartphone, il tablet o il pc spesso diretta conseguenza di una ricerca personale che fa 'spiare' i nostri desideri: la ricetta di cucina, il viaggio, il ristorante o l’auto che vogliamo comprare – il pensiero corre subito ai giganti di Internet come Facebook, Amazon o Google, in realtà esistono decine di intermediari che si occupano di recuperarli e venderli. Sono i cosiddetti Data Broker.

Le società e start up che raccolgono le informazioni on line da fonti pubbliche (si pensi solo a quel che postiamo sui social, alle attività di browsing o ai tanti sondaggi e quiz gratuiti a cui partecipiamo), le aggregano, le interpretano e le analizzano per poi venderle. Spesso a pacchetti suddivisi per interessi (auto, trucchi, viaggi, investimenti), fasce di età (giovani, anziani) o di reddito. Il lavoro dei data broker dovrebbe rispettare le leggi sulla privacy, compreso il Gdpr, il regolamento comunitario per la protezione dei dati personali, entrato in vigore nel 2018 che ha aumentato i diritti alla riservatezza sui dati che forniamo a terzi ma anche regolato la loro portabilità. Non sempre, però, le norme vengono rispettate tanto che si stimano in oltre 315 milioni le vittime degli svariati reati del cybercrime nel mondo. Contro i furti dei dati i garanti della privacy europei hanno elevato, secondo Federprivacy, 410 milioni di euro di sanzioni nel 2019 (4,3 in Italia). Ma spesso le armi delle Authority sono spuntate e la miglior difesa sono i comportamenti personali nel non firmare consensi all’utilizzo dei dati, nell’evitare di metterli nel mare gigantesco di Internet e nell’usare tutti i sistemi (come app e adblocker) per evitare che sappiano tutto di noi.