
MILANO
Marco Cappato non ha commesso un reato ma, al contrario, ha consentito "il concreto esercizio del diritto all’autodeterminazione" di due persone: il malato terminale può decidere di essere aiutato a morire anche se non è attaccato a macchine che lo tengono in vita, se questo tipo di trattamento rappresenterebbe solo "accanimento terapeutico" e comporterebbero solo "inutili sofferenze". Per questo motivo la procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio hanno chiesto l’archiviazione per il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, indagato per aiuto al suicidio per aver accompagnato due malati terminali in Svizzera. Una "interpretazione" più estensiva della sentenza della Consulta del 2019 sul caso dj Fabo, che allarga ancora di più la possibilità del suicidio assistito in una questione giuridica ed etica complessa, mentre in Italia manca ancora una legge sul fine vita. A novembre Cappato aveva accompagnato alla clinica Dignitas Romano, 82 anni, relegato in un letto dal Parkinson. La scorsa estate aveva offerto il suo aiuto per l’ultimo viaggio di Elena Altamira, malata terminale di cancro. In entrambi i casi, al rientro in Italia, si era autodenunciato. Era stato già Cappato, portando Fabiano Antoniani nella struttura svizzera, il motore del “procedimento pilota“ che, passando per un processo storico e commovente (anche la procuratrice aggiunta Siciliano non riuscì a trattenere le lacrime, quando fu proiettato il video dell’agonia di Fabo), si è chiuso con la sentenza della Corte Costituzionale. Il suicidio assistito è legale quando il malato è affetto da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, ed è pienamente capace di decidere. Ma deve essere anche tenuto in vita artificialmente. Proprio questo quarto paletto mancava come condizione nei casi di Elena e Romano, al centro dell’indagine milanese. Per la Procura rientrano però nell’ambito di "non punibilità delineato dalla Corte anche i casi in cui il paziente non sia tenuto in vita per mezzo di trattamenti di sostegno vitale" quando "egli stesso rifiuti trattamenti" che "sarebbero futili o espressivi di accanimento terapeutico". Romano, come ha raccontato la moglie ai pm, si "opponeva fermamente" all’idea dell’alimentazione forzata. Ed Elena, secondo le parole del marito, aveva capito "quanto fosse atroce morire per soffocamento". Una richiesta di archiviazione che, secondo Cappato, "conferma il valore della sentenza della Consulta". La palla passa ora al gip, che potrà decidere se archiviare, disporre nuove indagini o l’imputazione coatta.
Andrea Gianni