Stress, isolamento, meno efficienza. Ecco il lato oscuro dello smart working

Utile nell’emergenza, ma abusarne è rischioso. Nel pubblico cala la produttività, nel privato manca la circolazione delle idee

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Non è tutto smart il "lavoro agile di massa" di questi mesi. A dispetto della mistica talvolta eccessiva che ha esaltato questa formula come la salvezza dell’economia e dello stipendio, proprio le esperienze di questa stagione mettono in evidenza anche quello che è stato definito "il lato oscuro dello smart working". Un lato fatto di isolamento, stress, prigionia domestica, connessione continua o raddoppio dell’impegno (principalmente per le donne), ma anche di drastico crollo della produttività degli stessi lavoratori, come nel pubblico impiego, con la perdita verticale di efficienza nei servizi pubblici.

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I numeri e le ragioni dell’impennata del fenomeno sono noti. L’emergenza Coronavirus ha imposto un’accelerazione senza precedenti. E così, in pochissime settimane, ci siamo trovati a essere un popolo di smart workers: dati Istat alla mano, con milioni di addetti in cassa integrazione, si è passati dall’1,2 per cento all’8,8 in pieno lockdown per stabilizzarsi al 5,3 nella fase 2 e 3, ma con punte dell’80 per cento nel pubblico impiego. Insomma, 4-5 milioni di persone, che per la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, potrebbero arrivare a 8 milioni.

La grande sperimentazione di massa della formula, però, ha fatto emergere i limiti e le controindicazioni connesse a un passaggio travolgente avvenuto largamente senza cambi di organizzazione produttiva e di mentalità, senza tecnologie adeguate, digitalizzazione diffusa e precauzioni opportune. Tanto che, non a caso, se vi sono giganti che confermano oggi strutturalmente e per tutti la tendenza, come la Banca Schroders, altri stanno tornando indietro, almeno in parte.

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Se guardiamo agli effetti "negativi" a livello individuale, un sondaggio di LinkedIn ha rivelato che una quota del 46 per cento degli italiani in smart working nel settore privato ha dichiarato di sentirsi più ansiosa e stressata per il proprio lavoro rispetto a prima, manifestando disagio, fatica, stati di agitazione, insonnia, attacchi di panico. E non mancano esperti di medicina del lavoro che parlano di vera e propria sindrome da burnout da smart working.

Le lavoratrici con figli, principalmente, si sono trovate a vivere dentro slalom infernali tra gli impegni familiari e quelli dell’ufficio. Ma la gestione del tempo di lavoro (con il corollario del sempre connessi) si è trasformata spesso nel contrario della flessibilità, dell’autonomia e dell’agilità lavorative: più ore di lavoro, con giornate cominciate in anticipo e finite più tardi, senza pause. "È indubbio – osserva Emmanuele Massagli, presidente di Adapt – che vi sia anche un lato oscuro. Il riferimento è soprattutto ai lavoratori agili ‘forzati’, quelli che vorrebbero tornare a lavorare in gruppo. Per chi ha pochi locali a disposizione e allacciamento a internet scarso il lavoro agile può diventare fattore di stress e alienazione".

Ma il lato oscuro del lavoro da casa tocca anche i risultati per le aziende. La mancanza di rapporti diretti e immediati tra i lavoratori e con i loro dirigenti può portare anche a cali di produttività e sicuramente riduce la creatività e la spinta all’innovazione. "La parte individuale – ha osservato Mariano Corso, dell’Osservatorio del Politecnico di Milano – quella più tecnica, può essere svolta ovunque. Ma c’è una parte di relazione, quella dei corridoi, del caffè alla macchinetta che non è solo socialità, ma anche spinta all’innovazione". Se mal gestito, insomma, lo strumento può spingere in senso opposto. "È probabile – insiste Massagli - che molti vorranno tornare alla concretezza dei rapporti umani, della pausa caffè, della riunione organizzata al volo, relegando il lavoro agile in una parentesi drammatica (per le condizioni storiche) della propria esperienza".