Mercoledì 24 Aprile 2024

Spingendo la memoria oltre la giustizia

Gabriele

Canè

Il 17 maggio del 1972 il commissario Luigi Calabresi fu ucciso sotto casa a Milano. Gli assassini non si chiamavano Brigate Rosse o Prima Linea, o qualche altra sigla del terrorismo rosso. Nei salotti e sulle pagine di Lotta Continua si era stabilito che Calabresi fosse un assassino. Che avesse buttato da una finestra della questura l’anarchico Pinelli, indagato per la strage di piazza Fontana. Dunque, tanto bastava. Non c’era bisogno di grandi organizzazioni: erano sufficienti un paio di ragazzotti e qualche pensatore per decidere la sua morte. Giustizia proletaria. Quella ordinaria ci ha messo 12 processi per la condanna definitiva di mandanti e esecutori di un delitto che di fatto avviò gli anni del piombo rosso, dopo l’esordio tragico delle stragi nere. E non è finita. Perché oggi a Parigi un tribunale stabilirà se estradare in Italia Giorgio Pietrostefani, rifugiatosi tra le non più tanto accoglienti braccia della Francia. Del resto, come ha ricordato il figlio Mario, questo aggiunge poco a quel fatto criminale.

L’importante, a mezzo secolo di distanza, è che ne resti la memoria, e che la memoria di Calabresi sia stata negli anni ripulita dalle infamie che armarono i suoi assassini. Ricordare, infatti, non è un optional. Perché le scorie di quella ideologia inquinante, delle sue complicità e omissioni, non sono mai state del tutto ripulite. Perché abbiamo appena ricordato, e pianto, l’omicidio di Marco Biagi (marzo 2002); perché sulla lapide che commemora Aldo Moro dove il corpo fu lasciato dalle Br, i killer non vengono mai evocati, come se lo statista democristiano fosse stato ucciso per caso, in una rapina. Perché un gruppo rock si chiama P38 e gira mascherato per circoli e piazze con un pezzo che inneggia alle Brigate Rosse. Colpi di coda, scorie, appunto. Rifiuti. Su cui è bene vigilare quando si ricorda un grande servitore dello Stato come Calabresi. Ucciso per una ripugnante sentenza da salotto.