Venerdì 19 Aprile 2024

La moglie lascia il pc acceso? Vietato spiare

La Cassazione dà ragione alla donna che si è poi separata. Il marito aveva letto le chat

Foto di repertorio (Istock)

Foto di repertorio (Istock)

Roma, 27 luglio 2019 - In molti si chiedono se tra marito e moglie possa esistere una sorta di privacy, perché poi, a volte, al momento di una separazione, si cercano prove o simili nei cassetti o nei portafogli. O nei cellulari e nei computer. Prove comunque acquisite illegalmente che non possono essere utilizzate in un processo. Lo ha rilevato ieri in una sentenza la Corte di Cassazione, sottolineando che non si può leggere, né tantomeno copiare, quanto scritto in una chat su Skype dalla propria moglie per depositarne poi il contenuto in copia nell’ambito della causa di separazione, anche se il computer era stato lasciato acceso in sala da pranzo.    La Suprema Corte ha infatti accolto il ricorso di una donna contro l’assoluzione pronunciata in appello nei confronti dell’ex marito, accusato di «accesso abusivo a un sistema informatico e violazione di corrispondenza» per aver letto e stampato alcune conversazioni che la moglie aveva intrattenuto con una persona su Skype e che erano finite nel fascicolo per la separazione. Come prova del tradimento. Che, però, visto il pronunciamento della Cassazione, non fa più fede come indizio. 

La quinta sezione penale della Cassazione ha, quindi, censurato le conclusioni dei giudici di appello: «La condotta di illecito mantenimento» in un sistema informatico «può perfezionarsi anche in presenza di una casuale iniziale introduzione» in esso, come aveva raccontato l’imputato, affermando di aver urtato casualmente il tavolo dove si trovava il computer portatile della moglie, cosa che aveva fatto comparire sul monitor le conversazioni delle chat, in quanto il pc era già aperto su Skype. In merito poi alla possibilità che la signora avesse registrato la password per non doverla riscrivere ad ogni accesso, i giudici di piazza Cavour hanno osservato che ciò «non esclude che il sistema informatico in questione fosse munito di misura di sicurezza» e hanno ricordato che, per la sussistenza del reato, non rileva l’eventualità che le chiavi di accesso fossero state in precedenza comunicate all’autore del fatto, «qualora la condotta incriminata abbia portato a un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa». 

Infine, «non si può condividere – ha concluso la Cassazione – la giusta causa riconosciuta dal tribunale di Monza e dalla Corte d’appello di Milano in riferimento alla causa di separazione in corso tra i coniugi. Dal punto di vista penale, resta in questo caso confermata l’assoluzione dell’uomo, poiché la sentenza di condanna in appello è stata impugnata soltanto dalla parte offesa: ora dovrà svolgersi a Milano un nuovo processo solo in sede civile, inerente il possibile risarcimento alla signora.