Venerdì 19 Aprile 2024

Sinodo Amazzonia, la Chiesa verso la svolta rosa. Ma intanto le donne stanno ai margini

Domenica al via l'assise dei vescovi. Allo studio la creazione di ministeri femminili. Le donne, però, restano escluse dal voto in aula. Resiste il paradigma clericale e patriarcale.

Sinodo in Amazzonia, foto di gruppo delle famiglie indigene (Dire)

Sinodo in Amazzonia, foto di gruppo delle famiglie indigene (Dire)

Città del Vaticano, 1 ottobre 2019 - Anche stavolta sarà per la prossima. E chissà se davvero sarà così. Di certo non accadrà ora, non al Sinodo speciale dei vescovi sull’Amazzonia (in agenda da domenica al 27 ottobre), che si appresta a discutere l’introduzione di veri e propri ministeri femminili nella Chiesa in scia ai carismi delle comunità paoline, animate anche da diacone, profetesse e apostole, stando ad autorevoli studiosi. Nell’aria si avverte un sentore di svolta, per le realtà amazzoniche, ovvio, ma con inevitabili riflessi in tutto il mondo cattolico. Eppure, se riforma sarà, le dirette interessate, le donne, non avranno avuto voce in capitolo. O meglio, voto. In questo sinodo, come nei precedenti.

Per l’assise speciale sono 185 i padri sinodali, maschi, celibi, chierici (in larga parte vescovi, più qualche prete). Per loro la partecipazione sarà piena. Le donne ci saranno, ma nelle vesti di uditrici, esperte ed assistenti, ciascuna senza diritto di suffragio in vista del varo del documento conclusivo dell’assemblea. Nemmeno le suore potranno esprimersi a differenza di alcuni loro confratelli religiosi. Stessa sorte per i pochi laici ammessi in Aula. Una situazione che ricorda un po’ quella di chi viene invitato a cena e sistemato in un tavolo a parte. Può ascoltare le voci in sala, parlare con gli altri commensali, nei momenti e con i tempi dovuti, prima di essere accompagnato all’uscita, quando si alzano i calici per il brindisi finale. 

Trattasi pur sempre del Sinodo dei vescovi, potrebbe eccepire qualcuno. E non a torto. Creata nel 1965, l’istituzione doveva rispondere all’esigenza indicata da Paolo VI di favorire la collegialità episcopale cum et sub Petro in maniera permanente. Non per questo la si volle irreformabile tanto che sia Montini stesso, sia Wojtyla si espressero a favore di possibili cambiamenti strutturali. Ad apportarli è stato l’anno scorso papa Francesco con la costituzione Episcopalis communio che allarga la cerchia dei partecipanti alle assemblee sinodali. In aggiunta ai membri del Sinodo indicati dal Codice di diritto canonico (vescovi eletti dagli episcopati nazionali, soggetti designati dal Pontefice o prestabiliti dalle norme specifiche sinodali, religiosi scelti dai vertici delle congregazioni), l’art. 2 comma 2 sancisce la presenza di “alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale, il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal Romano Pontefice”.

La disposizione è ambigua: non nega, né afferma il diritto di voto di questi ‘altri’; si dice solo che non devono essere vescovi (dunque via libera anche a laiche e laici) e che spetta al Papa chiarire i loro compiti assise per assise. Alla vaghezza del dettato normativo risponde un intento della riforma inequivocabile. Francesco, che della sinodalità ha fatto la chiave di volta del proprio pontificato, la vuole estesa all’intero popolo di Dio. Ed evidentemente già da prima dell’Episcopalis communio. Nella sua ottica il camminare insieme non è più prerogativa del solo collegio episcopale, ingloba anche i fedeli non ordinati, né consacrati. Quei padri e quelle madri che trasmettono la fede di generazione in generazione in quella Chiesa domestica chiamata famiglia.

È vero che rispetto al passato la consultazione presinodale della base è stata decisamente intensificata. Non sbaglia chi coglie una partecipazione più larga e qualificata ai sinodi indetti da Bergoglio. Ciò detto, la parte attiva la recitano fino in fondo solo i vescovi. E chi prova a voltare pagina è rimandato all’indice. Come sa bene l’episcopato tedesco che sta lavorando a un processo sinodale nazionale vincolante, incentrato su questioni incandescenti (potere nella Chiesa, morale sessuale, celibato dei preti e ruolo delle donne). Da quelle parti i presuli sono pronti ad estendere il diritto di voto anche a laici e laiche. Curia romana, permettendo, però. Il Pontificio consiglio per i testi legislativi non ci ha messo troppo a ‘correggere’ la bozza del regolamento dell’assemblea: si osserva che i temi all’ordine del giorno sono di respiro universale e, in quanto tali, non possono essere oggetto di deliberazioni da parte di una Chiesa particolare, in più si puntualizza che, pur se c’è una comune responsabilità fra i fedeli, il popolo di Dio non è una democrazia. Risultato, il voto è limitato al clero.

Da tutto ciò si ricava l’impressione che la struttura sia nei fatti irreformabile. Resiste una dimensione clericale e patriarcale nel Sinodo, nonostante di per sé - fa eccezione il percorso tedesco - resti un organismo puramente consultivo. Al suo interno si dibattono tematiche di respiro universale genera, anche quando il focus è locale come per l’assemblea panamazzonica; si stilano degli orientamenti che, dopo la riforma bergogliana, possono assurgere a magistero ordinario; tuttavia le decisioni ultime spettano al successore di Pietro. 

Anche per questa sua conformazione il Sinodo si mostra materiale ideale per una plastica rappresentazione dell’immagine coniata da Francesco che vuole i vescovi non solo davanti, ma anche in mezzo e dietro al gregge. Potrebbe essere, ma non  è così. Non ancora, almeno. Il camminare insieme è mozzato al suo culmine: nella fase deliberativa. La conseguenza di ciò sul versante del ruolo femminile nell’orbe cattolica è presto detta: il rischio sempre più concreto che gli appelli insistenti per una maggior partecipazione delle donne ai processi decisionali, mossi dai vertici ecclesiali, restino inascoltati. E non tanto dagli uomini di Chiesa, che in parte mai vi hanno prestato orecchio, ma dalle stesse cattoliche che chiedono di passare ai fatti. Fino in fondo.