Venerdì 19 Aprile 2024

Sfida decisiva al Sud. Conte vola, Meloni in ansia. Senato appeso a 10 collegi

Con i grillini alfieri del reddito di cittadinanza a rischio la supermaggioranza. Tutti i big sono in tour nelle città del Meridione per la volata finale

Giuseppe Conte (Ansa)

Giuseppe Conte (Ansa)

Fino a qualche settimana fa sembrava un film già visto, finale scontato: centrodestra avanti e maggioranze blindate alla Camera e al Senato. Poi qualcosa è cambiato, e quella che sembrava una banale conta si è trasformata in una competizione thriller soprattutto per Palazzo Madama. Il motivo è presto detto. Il sistema elettorale è un mix di proporzionale e maggioritario. Al Senato si assegnano 200 seggi di cui 122 proporzionali e 74 maggioritari più i 4 seggi della circoscrizione-estero. Con il 45% dei voti, una coalizione prende più o meno il 45 % dei seggi proporzionali, cioè 55 scranni, ma con la stessa percentuale si ottiene l’80 o 90 % dei seggi maggioritari e con questi si arriva alla maggioranza assoluta. Ma se il centrodestra scendesse al 40-41? Beh, a questo punto, i numeri diverrebbero ballerini e il Senato si trasformerebbe nell’ennesimo suk, stavolta con i nero-azzurro-verdi a caccia degli epigoni di Scilipoti.

La governabilità è finita in alto mare a tre giorni dal voto perché sono tornati contendibili molti collegi, una trentina in tutt’Italia, soprattutto dieci al Sud che, per bocca degli aruspici dei sondaggi, erano già bottino di guerra del centrodestra. Nello specifico sei sono in Campania, due in Puglia e gli altri due in Sardegna. I collegi con il punto interrogativo sono: Napoli Fuorigrotta, Napoli San Carlo, Giugliano e Torre del Greco, Bari-Molfetta e Andria per la Camera. E poi Napoli, Giugliano, Cagliari e Sassari per il Senato. Il rush finale si gioca, quindi, tutto al Sud e questo spiega l’attivismo di Letta, Conte e Meloni che da giorni presidiano le piazze di Campania e Puglia. Il leader del Nazareno ha addirittura ingoiato i veleni sputati dai governatori De Luca ed Emiliano e li ha trasformato in sorrisi.

In un clima in cui tutto può succedere, girano anche leggende metropolitane. Come quelle che pur di togliere seggi decisivi a Meloni & co, ci sia sottotraccia una forma non dichiarata di desistenza Pd verso i candidati M5S. Il professor Roberto D’Alimonte sostiene che questo non sia oggi possibile: "Si poteva fare con la vecchia legge Mattarella alla Camera, non si può fare con l’attuale sistema elettorale". Vero, ma se in quella "sporca decina" con vista Sud, che tiene in pugno le sorti del governo, il Pd fa capire che il voto utile è quello per il candidato che può vincere? "È una cosa che è avvenuta strada facendo, non era preordinata né è stata preparata in sede di formazione delle liste – dice Marco Valbruzzi già ricercatore dell’Istituto Cattaneo, oggi docente al Dipartimento di Scienze sociali dell’Università Federico II di Napoli –. La chiamerei desistenza localizzata". Dal che risulta comprensibile l’appello del governatore pugliese Emiliano: "Cerchiamo di far confluire il più possibile i voti, non importa se al Pd o ai 5 Stelle".

Ragionamenti esplosi grazie a tre fattori. Il primo è la risalita M5S. In Campania e in Puglia, le due regioni-sentinella, i Cinquestelle stanno facendo leva sui percettori di reddito di cittadinanza. "Faccio una battaglia per i poveri", dice Conte. "Al Sud in molti collegi – ragiona Valbruzzi – il M5S si muove secondo gli ultimi sondaggi diffusi, intorno al 25%, non lontano dalla soglia del 30-32 per vincere il seggio". Magari, con un "aiutino" non dichiarato del Pd, ci riesce. Il secondo fattore che turba i sonni di Meloni è l’implosione di Forza Italia in Campania. Sono usciti dal partito pezzi da novanta con il loro carico di voti: i Cesaro (padre e figlio), il coordinatore regionale Mimmo De Siano, quello provinciale di Napoli Antonio Pentangelo, senza contare l’addio di Mara Carfagna, con il fedelissimo deputato Paolo Russo. Un’emorragia che potrebbe zavorrare il centrodestra, anche perché, come si è visto alle Regionali, di un anno fa, la Lega non sfonda. Terzo fattore è l’astensionismo. Alle politiche 2018 è stato del 27 %, questa volta sarà più alto. Gli studi dicono che un’affluenza più bassa tende ad avvantaggiare il centrosinistra. Il suo elettorato è più interessato alla politica, più informato, meno sensibile ai richiami populisti e, quindi, più disponibile a recarsi alle urne.

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