di Alessandro Farruggia Va di scena sul sedile posteriore della storica Lancia 335 decappottabile che sale lenta verso il Quirinale l’immagine plastica del solido asse istituzionale che guida l’Italia. Da un lato c’è Sergio Mattarella, l’uomo che dopo sette anni d’impegno non voleva più essere presidente, ma che accettò per evitare al Paese il demone dell’incertezza e dell’instabilità. Nell’altro siede Mario Draghi, l’uomo che poteva e ragionevolmente voleva essere presidente ma che il destino (e i peones) non volle che lasciasse palazzo Chigi. Uniti ancora sulla Lancia Flaminia, con i corrazzieri a cavallo e in moto che precedono affiancano e seguono, e lo staff della sicurezza a piedi, a passo veloce, e la gente che applaude. Liturgie della Repubblica. Come se il tempo non fosse passato. Sergio Mattarella succede a se stesso, in quello stesso 3 febbraio che lo vide per la prima volta salire al Colle. Giunge alla Camera con la stessa campana di Montecitorio che suona, lo accolgono il presidente della Camera, Roberto Fico, e del Senato, Elisabetta Casellati, la donna che avrebbe voluto essere al suo posto e ancora, tra sé e sé, non se ne capacita come non sia stato possibile. Ma tant’è. In Aula c’è anche Pier Ferdinando Casini, un altro che è stato a un passo dal Quirinale e ieri al suo ingresso in Aula ha avuto un lungo applauso. Manca, perché beffardamente bloccato come altri 15 grandi elettori da un tampone positivo, Matteo Salvini, quel leader le cui mosse hanno involontariamente creato, come una valanga, le condizioni per un ritorno di Mattarella al Quirinale. C’è invece il nuovo presidente della Consulta Giuliano Amato che a fianco di Draghi sorride a Mattarella e poco prima del giuramento è protagonista di un divertente siparietto. "Hai visto – gli dice Amato – che è finita come dicevamo ...
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