Giovedì 18 Aprile 2024

Se nello sport la testa conta più del fisico

Leo

Turrini

Dice Jannik Sinner, grande promessa del tennis italiano, che quando perde una partita non riesce a dormire. La sconfitta come alleata dell’insonnia: in fondo, questo è solo l’ultimo esempio di una casistica, la depressione da agonismo, che un tempo ci sarebbe sembrata inconcepibile. E invece è la norma, ormai: un anno fa, la meravigliosa ginnasta americana Simone Biles disertò quasi tutte le gare della Olimpiade di Tokyo perché colpita da una crisi di ansia. E non fu l’unica. Tant’è vero che lunga è la lista di campioni dello sport che candidamente dichiarano, non da oggi, di avere bisogno della assistenza di uno psicologo (in gergo, candidamente definito mental coach, l’allenatore della mente).

Ora, sarebbe sbagliato sottovalutare il segnale che arriva da circuiti, piste, pedane, campi e stadi. E sarebbe anche ingeneroso affermare che lo stress vero appartiene a chi fatica ad arrivare alla fine del mese, a chi deve occuparsi da solo di un genitore anziano o di un figlio disabile. Questa è retorica da tre palle un soldo: si può star male, nell’anima, anche quando si è pieni di soldi e non esiste il problema di sommare in tavola il pane al companatico.

Probabilmente il discorso è diverso, più raffinato e complesso. Per decenni – facciamo dal Grande Torino e da Fausto Coppi in poi – ci siamo abituati a vedere negli eroi e nelle eroine dello sport i simboli di una ipotesi di allegria da spargere generosamente sulla collettività. Per un tempo forse troppo lungo, non abbiamo considerato il peso che le nostre aspettative "da tifosi" caricavano su chi doveva tirare un calcio di rigore o battere per la Coppa Davis o vincere i 100 metri alla Olimpiade.

Alla fine della fiera, anche l’ammissione di Sinner ci restituisce una verità che abbiamo finto di ignorare, per comodità o per pigrizia.

Siamo tutti uguali, di fronte alla nostra coscienza.