Simone
Arminio
Durante le prime tappe del nostro viaggio nel mondo del lavoro ci siamo imbattuti in una dicotomia a dir poco imbarazzante. Da un lato ci sono i ragazzi e le ragazze che, dopo anni di studio e privazioni, dopo tutto il precariato e le aspettative sfumate, decidono di mollare perché stress e sacrifici non fanno pari con salari e crescita umana e professionale. Dall’altro lato ci sono gli imprenditori (quelli veri, non i filibustieri) che vorrebbero assumere e pagano bene, ma non trovano nessuno. Ed eccolo il paradosso italiano: c’è una domanda disperata che trova solo offerte al ribasso, e c’è un’offerta dignitosa che non trova una domanda qualificata. Cosa ci sia in mezzo, in fondo è facile capirlo: è la formazione. Che non è tutta da buttare, ma viaggia troppo spesso, e nonostante gli sforzi di docenti, tutor e presidi, su un canale parallelo a quello delle imprese. Abbiamo licei che non considerano neanche lontanamente l’ipotesi che lo studente, oltre all’università, possa valutare un lavoro post diploma. E ci sono ottime scuole tecniche che troppo spesso i genitori considerano di serie B. Ma è davvero deplorevole pensare che nostro figlio possa diventare un tecnico specializzato e magari bravissimo nel suo mestiere? O che un liceo possa fornire anche (e sottolineo: anche) delle competenze tecnico-pratiche oltre al latino? Le storie qui di fianco dimostrano che quando la formazione professionale funziona, domanda e offerta possono addirittura incontrarsi. E che se un giovane e un imprenditore non si presentano al loro appuntamento, forse le ragioni sono più complesse di un ’non ne avevano davvero voglia’.