Roma, 7 giugno 2025 – Quando il cervello entra in allerta – e accade anche nelle fasi investigative – cerca connessioni ovunque, fiuta minacce anche dove non ci sono. Un processo penale però non è una caccia all’uomo: è un sistema di verifica. Dunque, per rimettere in discussione un delitto come quello di Garlasco, servono tre coordinate essenziali: tempo, luogo, azione. Bisogna poter dire: “Era lì, in quel momento, e ha fatto questo”.

Il ticket del parcheggio, i biglietti scritti a mano, le telefonate, gli scontrini, i tracciamenti: sono indizi. Ad ogni modo, finché non si incastrano in una sequenza coerente e verificabile, restano suggestioni. E la suggestione, nelle aule di giustizia, non basta. La Procura di Pavia ha riaperto il fascicolo e ha deciso di tornare a quella mattina del 13 agosto 2007. È legittimo e doveroso. Esiste tuttavia il rischio che il desiderio di trovare un’altra verità si trasformi in un’altra ipotesi non dimostrabile. Oggi Andrea Sempio è indagato. Al centro della nuova indagine ci sono alcune presunte incongruenze nel suo alibi e anche una frase registrata in un’intercettazione ambientale. Dice: “Chi indaga sta dalla nostra parte”.
C’è chi ha letto in quelle parole una traccia di colpa. Ma in realtà è altro. È un meccanismo inconscio di auto-salvaguardia. In psicolinguistica, che studia la psicologia delle parole, si chiama marcatore di allineamento: quel “nostra” costruisce un “noi” perché, chi si sente sfiorato dal sospetto, non cerca di controllare il sistema: cerca di non cadere da solo. Intanto, mentre si torna su Sempio, si torna anche su Chiara. Non per capire chi era. Per ipotizzare chi poteva essere. “Magari aveva un secondo cellulare”. “Magari frequentava qualcuno di nascosto”. “Magari non era così ingenua”.
È la dinamica più tossica che esista: colpevolizzare la vittima per giustificare il carnefice. Come se il movente fosse sepolto in lei e non nella mano che l’ha colpita.
Chiara Poggi non aveva una doppia vita. Ne aveva una sola. E le è stata tolta.
Non c’erano amanti. Non c’erano segreti. Non c’erano bugie. Oggi si può discutere un alibi. Si possono rianalizzare i tabulati, rileggere le testimonianze, esplorare le zone d’ombra.
Invece, non si può accettare che l’unico modo per riaprire un caso sia infangare ancora chi non può più difendersi. Per la giustizia, Alberto Stasi è l’assassino di Chiara Poggi.
Ma l’opinione pubblica – quella pancia famelica che non si sazia mai – ha bisogno di nuovi colpevoli. E se non li trova, se li costruisce. Non so se la giustizia si possa sempre riparare. Ma so con certezza che non si ripara nulla se si parte col colpevolizzare la vittima.