Scelte normali per vivere l’emergenza

Gabriele

Canè

Per stare dalla parte dei bottoni prendiamo la Treccani. Emergenza: "Circostanza imprevista, accidente". La definizione non lascia dubbi: emergenza è considerato un avvenimento eccezionale, improvviso. Un’alluvione, un terremoto, o una epidemia, ad esempio. A quasi un anno di distanza dai primi casi, possiamo dire che la diffusione del Sars Covid-19 è ancora un fatto eccezionale, improvviso? Evidentemente no. Eppure, il governo pare intenzionato a prolungare lo stato di emergenza oltre il 30 gennaio. Allora, forse è bene chiarire che dal significato delle parole derivano pure delle conseguenze pratiche. Che nel nostro caso sono molto semplici. Primo. Passati undici mesi, l’aggressione del virus non ci coglie di sorpresa, sappiamo che esiste, che è un fattore di rischio quotidiano contro il quale usciamo di casa armati di mascherina e con le mani disinfettate per arrivare sani al giorno dopo. Molti ci riescono, altri no, nonostante i divieti, le rinunce a cui veniamo sottoposti da una legislazione, i Dpcm, che valeva forse nei primi momenti, appunto, ma che oggi non ha più senso, se non quello di scavalcare i normali filtri istituzionali. Intendiamoci. Guai abbassare la guardia, stando comunque attenti a non alzarla troppo e a volte inutilmente.

Ora che dall’emergenza siamo passati alla "normalità" dell’epidemia, però, è il momento di passare anche alla normalità di governo. In cui ci sta anche un’Italia a colori, ma con decisioni collegiali, condivise, non prese con regale sovranità in una notte per la mattina dopo. Perché anche noi cittadini abbiamo il dovere e il diritto di vivere in modo ordinato e "normale" la anormalità del virus. Che significa rispettare delle regole, e non solo abbassare delle serrande o chiudere delle aule. Significa anche andare in piazza, perché no, mascherinati e distanziati per protestare contro le cose che non vanno. Tante. Significa convivere con il virus. Che era una emergenza, ma è diventato una "normalità".