Scalata verso la libertà. Iraniana in gara senza velo

Elnaz Rekabi contro il regime di Teheran ai campionati di arrampicata a Seul. Il sostegno alle proteste che continuano nel suo Paese dopo la morte di Mahsa

Elnaz Rekabi (Dire)

Elnaz Rekabi (Dire)

Lo sport è un posto straordinario dove disobbedire. E ricordare al mondo quello che Edward Snowden ha scritto sulla propria pelle: credere in qualcosa non è sufficiente. Per ottenere dei cambiamenti bisogna essere disposti a prendere posizione. Ambiti diversi, ma vale dappertutto. Specialmente sotto i riflettori di una competizione. E può bastare una coda di cavallo. Nera, lunga, arresa alla forza di gravità mentre la testa punta al cielo. Appuntata sul capo di un’atleta iraniana che a modo suo prova a fare la differenza. La scalatrice Elnaz Rekabi, classe 1989, bronzo ai mondiali di Mosca nel 2021, ai campionati asiatici di Seul si è fatta strada verso l’appiglio più alto senza indossare il velo imposto dalla Repubblica islamica di Teheran.

È il suo contributo alle protesta per la morte di Mahsa Amini, la ventiduenne di origini curde deceduta il 16 settembre dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per una ciocca fuori posto. Siamo in Corea del Sud, dove le cose vanno diversamente, eppure il mondo (e il regime) non riescono a staccare gli occhi dalla sua impresa ai margini dell’arrampicata, quel ricamare percorsi alternativi su una parete. Disciplina per gente tosta, contenuto simbolico altissimo. L’emittente tv vicina all’opposizione Iran International, con sede a Londra, definisce "storico" il suo gesto mentre in Iran proseguono da oltre cinque settimane le dimostrazioni in cui sono state uccise almeno 201 persone, fra cui 23 minori.

Di azioni temerarie è piena la storia sportiva. Dopo avere vinto il Tour de France nel 1938 Gino Bartali evitò il saluto romano sul podio e rientrato in Italia si rifiutò di indossare la camicia nera. Fu oscurato dai mezzi di informazione. E qualcuno ricorda Vera Caslavska, straordinaria atleta cecoslovacca capace di vincere 11 medaglie olimpiche in 11 anni di carriera? Prodigi ginnici a parte, riuscì a stupire tutti alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Il suo Paese era appena stato invaso dalle armate del Patto di Varsavia, inviate da Mosca a soffocare la Primavera di Praga, e lei durante l’inno sovietico voltò la testa rischiando la squalifica dal primo posto. Tornata in patria, preferì rinunciare a tutto e lavorare come donna delle pulizie piuttosto che approvare l’invasione. E Luz Long, il tedesco, perfetto esemplare ariano. A Berlino nel ’36 sfidò nel salto in lungo Jesse Owens, che rischiava l’eliminazione per due tentativi falliti e gli suggerì di anticipare lo stacco. Owens incassò il quarto oro, la fotografia del loro abbraccio è diventata l’icona della fratellanza sul baratro. Sedici ottobre 1968, Città del Messico. I velocisti Tommie Smith e John Carlos arrivano primo e terzo nella finale dei 200 metri. Sul podio si girano verso la bandiera statunitense, abbassano la testa e alzano un pugno chiuso avvolto in guanti neri per ribadire la battaglia per i diritti civili degli afroamericani. Per la cronaca, Elnaz Rekabi è arrivata nona, ma ha vinto lei.