Mercoledì 24 Aprile 2024

Sai che faccio? Chiamo il mental coach. Soluzione per sportivi e divi in crisi

Effetto Jacobs, sempre più professionisti insegnano a gestire le emozioni: sono i “saggi“ del nostro tempo

Marcell Jacobs con la medaglia d'oro (Ansa)

Marcell Jacobs con la medaglia d'oro (Ansa)

"Vecchio prete, lei che ha passato tanti anni ad ascoltare la gente nel confessionale, che cosa ha imparato? E il vecchio prete: ho imparato due cose. La prima è che la gente è molto più infelice di quanto non si creda. La seconda è che non esistono adulti". Lo scriveva Malraux, uomo del secolo scorso. Oggi, forse, la domanda andrebbe fatta non a un prete, ma a un “mental coach“, perché all’improvviso è diventato il mental coach (l’allenatore mentale) il vero grande saggio di queste ore, e in particolare dopo che la straordinaria vittoria olimpica di Jacobs nei 100 metri si è rivelata essere frutto non già del solo talento del 26enne o della comodità delle ipertecnologiche scarpe Nike Maxfly (calzate però anche dall’americano Kerley, arrivato secondo, e dal cinese Su Bingtian), quanto del lavoro operato da Nicoletta Romanazzi all’interno di quel fascio di muscoloni superallenati e supertatuati.

Allo scoccare del trionfo del ragazzo, la “mental coach“ Romanazzi ha spiegato che le era bastato vedere la sua espressione ai blocchi di partenza per capire che Marcell ce l’avrebbe fatta: "Jacobs è riuscito a tirare fuori il potenziale inespresso dallo scrigno che era chiuso dentro di sé coniugando elaborazione delle proprie emozioni e respirazione, imparando a sciogliere quei nodi irrisolti che erano come pietre messe sul cuore e sull’anima". I nodi, le pietre? "Il rapporto irrisolto col padre", ha chiarito.

Viviamo nati per vincere, condannati al successo e alla felicità. Si comincia all’asilo, con i bambini per i quali ormai è tutta una gara, tutto un conseguimento di upgrade (come fossero telefonini) e risultati, il gioco per il gioco non c’è più. Si comincia da piccoli, e chi si ferma è perduto, non è tollerato. Nel presente del dominio del profitto del consumo e della performance, nell’orizzonte che è il dominio del postumano, non tolleriamo noi per primi l’inciampo esistenziale, né lo tollera chi ci sta intorno, i prof a scuola, i padroni del nostro lavoro che legittimati dall’esercizio ormai desindacalizzato del potere stigmatizzano il cedimento, non perdonano il passo falso, non contemplano l’incrinatura, la fragilità.

Che cosa vuoi che sia?, è il mantra con cui abbozziamo dinnanzi alle crisi dei nostri figli, e con cui veniamo a nostra volta liquidati dai nostri cari e meno cari quando osiamo fermarci, abbassare la testa. Quando diciamo non ce la faccio più. Così un po’ si mente, un po’ si va di pasticche. Di alcol. Di tarocchi, di gratta e vinci, di YouPorn, di Tai-Chi. Di palestra e di corsa, anche se non sono i 100 metri. Si va – ora – di “mental coach“: la nobile costosa e lunghissima arte della psicanalisi contratta nei tempi brevi e nell’abbordabile utilitarismo modello aggiornamento professionale. Con la differenza che – almeno alla sua abbastanza recente nascita negli Usa – il “coaching“ è più l’Al Pacino in Ogni maledetta domenica che il Freud della Psicopatologia della vita quotidiana: è una pratica sportiva, da un po’ prestata a mille altri campi, dalla musica al cinema alla politica al management aziendale, pratica felice in cui l’allievo pone un traguardo da raggiungere, e il maestro gli insegna il trucco per riuscirci.

Un balsamo. Non un miracolo, però. Il miracolo è imparare ad abitare un sé divenuto, per motivi che siano futili o drammatici (e anche i più futili possono essere drammatici), un sé divenuto inabitabile. Per arrivarci occorre sì essere campioni, arrivare a spendersi nell’atto più eroico e insopportabile nella società machista e spietata in cui viviamo. Occorre da adulti – come suggeriva il prete di Malraux – piangere di se stessi e con se stessi bambini. Qualcuno che ascolta c’è: occorre la gran forza dell’umiltà, e chiedere aiuto.