Rosario Livatino beato: la storia del giudice che faceva paura ai boss

Il magistrato fu ucciso a 37 anni nelle campagne di Agrigento perché non si piegava alla Stidda. Sarà il primo magistrato beato nella storia della Chiesa

Il giudice Livatino sarà beato. La stele in memoria e l'auto crivellata di colpi

Il giudice Livatino sarà beato. La stele in memoria e l'auto crivellata di colpi

Roma, 22 dicembre 2020 - Il giudice Rosario Livatino sarà beato. Il magistrato aveva solo 37 anni quando fu assassinato 30 anni fa dai mafiosi della 'Stidda'. La Santa Sede ha riconosciuto il martirio "in odium fidei" a quello che veniva definito 'il giudice ragazzino'. Già nel 1993 Giovanni Paolo II lo definì "martire della giustizia e indirettamente della fede", quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, lanciò il suo anatema contro i mafiosi.

Si tratta del primo magistrato beato nella storia della chiesa. Laureatosi a soli 22 anni in giurisprudenza, il "giudice ragazzino" era entrato subito nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell'Ufficio del Registro di Agrigento dove restò dall'1 dicembre 1977 al 17 luglio 1978. Aveva superato infatti un concorso in magistratura diventando uditore giudiziario a Caltanissetta.

L'idea di fare beato Livatino risale a quasi 10 anni fa: il 19 luglio 2011 era stato firmato dall'arcivescovo di Agrigento il decreto per l'avvio del processo diocesano di beatificazione, aperto ufficialmente il 21 settembre 2011 nella chiesa di San Domenico di Canicattì. Concluso il processo diocesano, il materiale raccolto è stato inviato alla Sacra Congregazione per le cause dei Santi a Roma, per la valutazione finale circa l'eroicità delle virtù del Servo di Dio. Ora dal Vaticano trapela l'intenzione ferma di arrivare in tempi brevi alla sua canonizzazione, esperiti tutti i passaggi necessari. 

L'assassinio e la sentenza

Erano passate da poco le 8.30 quella mattina del 21 settembre 1990. Il giudice Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento, quando è stato avvicinato, braccato e ucciso senza pietà da un commando mafioso.  In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perché "perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia".

Quel mattino di 30 anni anni fa, il giudice ragazzino stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto si recarono i colleghi del giudice assassinato: da Palermo l'allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino.

Le inchieste di Livatino

Rimane ancora oscuro il "vero" contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente della Prima Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre improvvisamente, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo. Nella sua attività, Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la 'Tangentopoli siciliana' e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.

La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro "Il giudice ragazzino", titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. "Livatino e la sua storia - scrive Dalla Chiesa - sono uno specchio pubblico per un'intera società e la sua morte, più che essere un documento d'accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d'accusa contro il complessivo regime della corruzione".