Giovedì 18 Aprile 2024

Rocky e Fonzie, all’asta il sogno americano

Gara a colpi di migliaia di dollari per aggiudicarsi i cimeli di due miti di cinema e tv. La nostalgia degli anni ’70 e ’80 ormai è una mania

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di Viviana

Ponchia

Un paio di guantoni, una giacca di cuoio. Girano in testa come vecchie canzoni, a quei feticci è rimasta incagliata la fantasia di chi è stato giovane negli anni Settanta. Rocky e Fonzie: i nostri giorni felici, la nostra America. Sarà un caso, sarà emulazione, ma quel che resta di loro va all’asta in contemporanea in questi giorni. Domani il celebre giubbottazzo indossato da Henry Winkler viene battuto a Los Angeles con un prezzo che oscilla fra i 50 e i 70mila dollari. Da parte sua, Sylvester Stallone ha donato svariati oggetti di una carriera lunga mezzo secolo alla Julien’s Auctions e a Beverly Hills la festa del cimelio è in piena attività proprio adesso. Metonimia, la parte per il tutto.

Altro che accessori. Chi si stupisce paga con il cinismo la mancanza di punti di riferimento. Chi ci crede paga e basta, pur di mettere le mani su uno stivaletto sudato, sul capospalla che accendeva i cuori e i juke box. Loro sono invecchiati, il sogno no. E a entrambi va applicata proprio la teoria della "sindrome di Fonzie", il fenomeno per cui un personaggio minore o un manufatto senza importanza diventano oggetto di attenzione e venerazione.

Accadde ad Arthur Fonzarelli quando si affacciò quasi per sbaglio nella saga di Happy Days. Accade ora alla sua giacca recuperata da un vecchio guardaroba, mai indossata nella prima serie, finché uno sceneggiatore si accorse che una specie di k-way non bastava. E per gli effetti personali di Rocky Balboa è lo stesso. In mancanza del pugile che ci passava il libretto di istruzioni della vita ("L’importante è come sai resistere ai colpi"), ci facciamo bastare i suoi attrezzi di scena.

Winkler lo fa a fin di bene: con il denaro dell’asta darà un contributo all’organizzazione no-profit della figlia Zoe a favore delle famiglie di migranti separate nel viaggio verso gli Stati Uniti. Lì finiscono anche i ricavi dei Levi’s, della maglietta bianca e degli stivali neri di ordinanza. E gli 80mila dollari per la Triumph TR5 su cui sgommava sulle strade di Milwaukee, customizzata dal leggendario stuntman di Hollywood, Bud Ekins, fra l’altro amico di Steve McQueen. Basterebbe questo per capire che l’amatore non si mette in garage solo un vecchio catorcio ma finisce dritto nella leggenda del bullo dal cuore buono, nel salotto dei Cunningham, nella provincia yankiee fra gli anni 50 e 60, dove le ragazze indossavano la gonna di Joanie-Sottiletta e a Fonzie spedivano 55mila lettere a settimana. Forse era "una vaccata" come ha osato dire Jovanotti (subito sommerso dalle critiche). Ma se cinquant’anni dopo quella divisa ha continuato ad avere un certo appeal anche fra i politici italiani ci sarà un perché.

Per Rocky e le sue cose non c’è bisogno di spiegazioni. È stato una seduta psicanalitica collettiva con i suoi demoni da combattimento, un ricostituente dell’autostima. Rocky, l’apice del sogno americano (ragazzo venuto dal niente può vincere tutto), fratello maggiore di Rambo il veterano, che dell’America incarnava l’apparato muscolare e militare. Anche del soldato va all’asta qualcosa (la fascia che si lega alla testa e il coltello, in particolare), ma i pezzi forti sono quelli sudati dal pugile pioniere di tutti i futuri corsi motivazionali che invitava a minimizzare la sfiga: "Ha mai beccato 500 pugni in faccia per sera? Irrita la pelle dopo un po’".