Roma, 21 aprile 2025 – Il pontificato di Papa Francesco passerà alla storia per la rivoluzione mediatica impressa al ruolo. Contenuti e forma mai visti prima. Quotidiani, tv, social, libri. Il pontefice che più racconta e il più raccontato. Il più immediato nel parlare. Anche a costo di disorientare. Un pontefice ribelle che fin dall’inizio scardina gli schemi collaudati e paludati della comunicazione vaticana. La risposta cult del 29 luglio 2013, sul volo papale di ritorno da Rio de Janeiro a Roma - a una domanda sulla presenza di lobby gay in Vaticano - fa subito il giro del mondo e dà il segno del cambiamento: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema è fare lobby... questo è il problema più grave”. E ringrazia il giornalista che gli ha fatto la domanda.

Ben presto le strutture stampa vaticane vacillano sotto il suo impeto organizzativo. Accorpa Centro televisivo, Osservatore Romano e Radio Vaticana sotto il dicastero della Comunicazioni, ruota uomini e risorse, non delega i rapporti diretti a nessuno. Non ci pensa minimamente ad avere al proprio fianco un Joaquín Navarro-Valls (lo storico portavoce-interprete di Giovanni Paolo II). Estrae dalla sua lisa cartella la fidata agendina dove annota direttamente i numeri, e chiama chi vuole: chi preferisce. Anche in questo casa a costo di ribaltare gerarchie e tradizioni. Impossibile riferire tutti i suoi exploit. Sintetizzando, Francesco parla. Perché non ha paura dei media, né vecchi né nuovi. Sui voli papali risponde a braccio. Incurante delle possibili gaffe – come il “pugno” da dare “a chi offende la mamma, perché non si può provocare, insultare, ridicolizzare la fede degli altri” (risposta a una domanda dopo la strage di Charlie Hebdo). Convoca a Santa Marta interlocutori di alto lignaggio - su tutti il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari - e dialoga sulla fede e sull’universo mondo. Tiene vivi i rapporti con i suoi antichi interlocutori argentini (che ne rilanciano trascorsi e afflati).
Capisce la potenza estrema del web. E i rischi dei media digitali, specie se diventano “luoghi di tossicità, discorsi d’odio e fake news”. Al tempo stesso esalta la rivoluzione in corso, chiede ai giovani di “sviluppare un sano senso critico, imparando a distinguere la verità dalla menzogna, il giusto dallo sbagliato, il bene dal male”. Ma soprattutto, lui stesso non si ritrae: fino al debutto su Tik Tok, con in mano ‘Spera’, la sua autobiografia scritta con Carlo Musso. Opera uscita a pochi mesi da ‘Life’, realizzata con Fabio Marchese Ragona, vaticanista del Tg5. Una doppia uscita che denota la voglia di lasciare un segno, di indicare una strada. A volte offrendo dissonanze. “L’abbaiare della Nato alla porta della Russia” (2022) fa arrabbiare l’Ucraina. “Indagare se a Gaza è in atto un genocidio” (2024) fa sussultare Israele. Quando ritiene, chiede scusa (come dopo la frase “in giro c’è già troppa frociaggine”). Sui media combatte il dolore del mondo, contesta “che stiamo diventando disumani”. Un mese fa, da Fabio Fazio, l’ultima intervista tv: “Non c’è peccato che non possa essere perdonato”.
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