di Antonella
Coppari
Rieccolo. Ventotto anni dopo la famosa discesa in campo, il milione di posti di lavoro che gli valse allora il trionfo è diventato un milione di alberi. "Ne pianteremo così tanti ogni anno". I tempi cambiano, la generazione ’Greta’ incalza. Non che nella propaganda del Cavaliere figuri solo la botanica: il programma in 8 punti che attribuisce a tutto il centrodestra, prevede meno tasse per tutti (non proprio una novità) e mille euro di pensione al mese a lavoratori e mamme. Che si tratti di promesse realizzabili o impossibili a Berlusconi importa poco. Lui mira a una campagna elettorale che lo riporti trionfante in quel Senato che nel 2013 lo aveva umiliato e cacciato. "Non per fare il presidente a Palazzo Madama – garantiscono i suoi –. Vuole dare le carte". Anche per questo, secondo l’inner circle fremeva per andare al voto, non sopportando che Draghi venisse considerato l’uomo della provvidenza. "Ho un orizzonte limitato: una campagna breve, tutta televisiva è nelle mie corde", spiega.
Lo sprint della destra non si limita a questo: l’incontro del leader azzurro ieri a Villa Grande con Giorgia Meloni serviva soprattutto a restaurare rapporti un po’ incrinati dopo i flop degli ultimi vertici. Quello vero sarà mercoledì, in una sede istituzionale, la Camera, presenti anche Salvini e i leader dei partiti minori. In quell’occasione, la coalizione che, grazie alla disastrosa performance degli avversari, parte con metri di vantaggio dovrà sciogliere due nodi: il primo è l’annosa questione della premiership, il secondo riguarda la composizione delle liste per la quota maggioritaria. In realtà si tratta dello stesso nodo: confermare o meno le regole adottate nel 2018. Allora si era stabilito che a indicare il premier fosse il partito con più voti. Meloni non vede motivo di cambiare: "La campagna è breve, dobbiamo vincere bene, non si possono mettere in discussione regole che hanno sempre funzionato". Salvini la rassicura: "Chi ha un voto in più indica il presidente del consiglio", cinguetta con il piglio di chi ha la Lega in pugno, inclusi i governatori orfani dell’esecutivo. Benché non gli dispiaccia la proposta di Silvio per cui a scegliere a urne chiuse sia l’assembla degli eletti. Ipotesi suggerita 5 anni fa da Fd’I senza successo.
Quanto alle liste, nel 2018 la ripartizione fu calibrata sulla base dei sondaggi: anche in questo caso, per la leader di Fd’I il metodo è ottimo, e lei chiede il 50% dei collegi. Per Cavaliere e Capitano sarebbe invece d’uopo una soluzione salomonica: un terzo di posti per uno. Il braccio di ferro è in corso da mesi, urge un’intesa. Sperare che a sprechino un’occasione forse irripetibile per azzuffarsi sul numero dei seggi sarebbe per Letta & co. una pericolosa illusione. In questi casi, la necessità di vincere fa premio su tutto: "Secondo iscritti e simpatizzanti di Fd’I dobbiamo dialogare ma senza subire", sottolinea il capo dei deputati Francesco Lollobrigida. Per la destra non si pongono solo problemi tecnici; anche qui come a sinistra c’è chi brandisce l’agenda Draghi: il governatore Toti. C’è il rischio che in campagna le squadre si azzuffino innalzando la bandiera di Super Mario? "Intanto, va capita qual è l’agenda Draghi", ironizza Antonio Tajani.
Chi non ha questi problemi è Giorgia Meloni. La strategia della coerenza, alla quale si è affidata fin dalla nascita del governo Draghi, paga e non solo presso gli elettori. Dentro e fuori l’Italia è stato notato che dopo l’appello del Capo dello stato, il primo partito a garantire sostegno pieno per l’attuazione del Pnrr è stato proprio l’unico di opposizione. Dopo l’Ucraina, è un ulteriore mattone per la costruzione di una credibilità internazionale da premier cui la leader di Fd’I ancora oggi sta lavorando.